Monti-Marchionne, doppio passo indietro

by Sergio Segio | 23 Settembre 2012 8:34

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«LA PERCEZIONE del Paese finora era che il progetto Fabbrica Italia esistesse ancora. Ora sappiamo che non c’è più».
«MA POICHà‰ pensiamo che vi sentiate italiani e, in parte anche torinesi, vi invito a partecipare alla sfida che stiamo portando avanti». È un appello all’italianità  quello che durante la lunga riunione a Palazzo Chigi, il premier, Mario Monti, ha rivolto all’amministratore delegato della Fiat-Chrysler, Sergio Marchionne. Un appello per far tornare la Fiat dentro il Paese con la “testa” e con gli impianti, con la ricerca e con la manodopera. Quasi un ritorno alle origini per ridare centralità  all’industria dell’automobile. Il comunicato finale congiunto (la Fiat ne aveva preparato uno da sola) sancisce un patto di collaborazione. E dunque un cambio di strategia di entrambi: il governo diventa interventista, il manager italo- canadese non potrà  più minacciare (contro la politica e contro i sindacati) di andarsene dall’Italia. Una svolta, per Monti e per Marchionne.
Era il 17 marzo di quest’anno, infatti, quando il premier Mario Monti salì sul palco del convegnone milanese del Centro studi della Confindustria (l’ultimo dell’era Marcegaglia) per dare una lezione di liberismo agli industriali italiani assetati di sussidi e aiuti pubblici. «Chi gestisce la Fiat ha il diritto… », disse con tono monocorde e fermandosi subito dopo per una pausa da oratore consumato. Per poi riprendere: «Ma c’è di più: ha il dovere di scegliere per i suoi investimenti le localizzazioni che siano le più convenienti. Non ha nessun dovere di ricordarsi solo dell’Italia ». Una scudisciata per chi già  allora chiedeva una responsabilità  nazionale al Lingotto anche in virtù delle palate di miliardi ottenuti dai governi italiani nei decenni trascorsi sotto forma di ammortizzatori sociali (cassa integrazione, prepensionamenti, mobilità ) e incentivi di varia natura. In virtù di un vincolo-Paese che invece la globalizzazione non ammette.
Un Monti liberal, decisamente mercatista. Il professore della Bocconi che certo non scordava il suo passato nel board della Fiat a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Da ieri, però, il governo dei tecnici, dei banchieri e dei professori, ha scelto di non restare più a guardare. Ha voluto conoscere nel dettaglio i programmi industriali di Fiat-Chrysler, le possibili ricadute sull’occupazione in un’economia in profonda recessione nella quale le crisi industriali si accavallano l’una dopo l’altra: la siderurgia (con l’Ilva e l’Alcoa), l’alimentare (con Parmalat che annuncia la chiusura di tre stabilimenti), gli elettrodomestici (che delocalizzano di nuovo all’est), l’energia (con la drammaticità  del caso Carbosulcis), infine, l’auto. C’è la frenata dell’Europa ma c’è soprattutto il crollo della domanda interna. Che pesa in maniera determinante su un gruppo, come quello torinese, che ha ancora in Italia il mercato principale. Marchionne l’ha ridetto ieri al governo.
Il lunghissimo incontro di Palazzo Chigi, con Sergio Marchionne, John Elkann e Paolo Rebaudengo (responsabile delle relazioni industriali), da una parte, e il presidente Monti, attorniato dai ministri Corrado Passera (Sviluppo economico), Elsa Fornero (Lavoro), Fabrizio Barca (Coesione territoriale) e dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Antonio Catricalà , dal-l’altra, muta la prospettiva. Per quanto con i limiti imposti dal bilancio pubblico. Perché se non sarà  semplice trovare i quattrocento milioni che servono al “decreto Sviluppo 2”, lo sarà  ancora di più per le risorse da destinare alle politiche industriali di sostegno all’export.
Ora cambia anche la linea Marchionne. Disse che non avrebbe voluto nulla dallo Stato, ora, invece, sa che la sua responsabilità  sociale può esercitarsi solo se il governo lo affiancherà  nel suo sforzo di conquistare quote sui mercati esteri e se, soprattutto, avrà  la possibilità  di mettere in campo quattrini per finanziare la cassa integrazione in deroga, quella, appunto, alla quale si ricorre dopo aver esaurito la cassa ordinaria e straordinaria. Perché la cassa in deroga non è alimentata dai contributi delle imprese bensì dalla fiscalità  generale, cioè da tutti noi. Questo è lo scambio che implicitamente chiede la Fiat-Chrysler: nessun altro impianto chiuso in Italia dopo Termini Imerese e l’Irisbus, con la conferma degli investimenti che arriveranno quando ci saranno le condizioni, ma la possibilità  di utilizzare dal 2014 (anno dal quale la Fiat sarà  gradualmente a corto di ammortizzatori ordinari) la cassa in deroga. O almeno qualcosa di simile. Questo è il punto che ieri però è rimasto sottotraccia, il vero convitato di pietra, l’unico strumento che può garantire le catene di montaggio ferme in attesa di tempi migliori e un reddito ai lavoratori. E questo spiega il ruvido scontro a distanza dei giorni scorsi tra Marchionne e Passera sui sostegni all’industria dell’auto.
Archiviato il progetto “Fabbrica Italia” Marchionne svelerà  il futuro della Fiat nel nostro Paese solo il 30 ottobre, giorno per il quale è già  stato convocato il Consiglio di amministrazione del Lingotto per l’esame dei conti del terzo trimestre 2012. Da lì uscirà  un’altra Fiat, americana sì ma un po’ più italiana. «in Italia si può restare — ha detto il manager a Monti — perché questo è il governo. Ma dopo?».

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