Milano, tenta il suicidio dopo la condanna il giudice che disse: dovevo fare il mafioso

by Sergio Segio | 29 Settembre 2012 7:20

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Milano — È stato dato per morto suicida in carcere, e nel carcere milanese di Opera, un giudice: ma a tentare di uccidersi è stato un altro magistrato-detenuto, che è vivo ed è ricoverato in ospedale. Un equivoco che sembrava impossibile, anche per il nome e le storie dei protagonisti, è avvenuto. L’ha innescato un sindacalista della polizia penitenziaria, lo stesso che tempo fa aveva denunciato il finto suicidio di Lele Mora, l’ex agente di spettacolo.
Le agenzie di stampa, i siti internet, le tv hanno rilanciato la storia di Vincenzo Giglio, magistrato a Reggio Calabria, ex detenuto dallo scorso dicembre, ma
in realtà  a tentare il suicidio è stato Giancarlo Giusti. E cioè l’ex gip di Palmi, appena condannato a quattro anni di carcere per corruzione, con l’aggravante di aver agevolato la ‘ndrangheta. Giusti ha preso i tranquillanti e s’è stretto la corda di un accappatoio intorno al collo. Erano le 16.30 di ieri, è stato soccorso e trasportato all’ospedale San Paolo, dove c’è un reparto riservato ai detenuti. La prognosi è riservata, ma fonti ufficiose lo dichiarano fuori pericolo.
«Mi assumo per intero le mie responsabilità  e chiedo scusa», fa sapere il segretario della Uil penitenziari, Eugenio Sarno. L’avvocato di Giglio, Massimo Dinoia, ha ancora la voce che trema: «Ho avuto mezz’ora di disperazione assoluta, apprendere una notizia del genere dalla televisione ti manda fuori di testa. Per fortuna ho chiamato a Milano il sostituto procuratore Paolo Storari, che sapeva tutto e mi ha smentito subito la morte, ha spiegato la situazione, ed è stato confortante».
Sia Giglio, ignaro di tutto sino a tarda sera, sia Giusti, che è piantonato all’ospedale, sono accusati di far parte della «zona grigia» della ‘ndrangheta. Entrambi sono stati arrestati, anche se in tempi diversi, nella stessa inchiesta, battezzata «Crimine », che ha visto lavorare fianco a fianco gli staff dei magistrati Ilda Boccassini a Milano e Giuseppe Pignatone a Reggio Calabria. Entrambi i detenuti erano in contatto con la famiglia Lampada, imprenditori nel settore delle macchinette mangiasoldi, con conoscenze trasversali nella politica e nel Vaticano.
Prima della condanna, Giusti aveva inviato una memoria al gup milanese Alessandra Simion, parlando di «un periodo buio della mia vita». E chiedendo scusa per i «divertimenti disdicevoli per la mia funzione di magistrato », raccontati in un diario intimo sequestrato dagli investigatori. Il suo tentato suicidio ieri era stato tenuto segreto per ragioni d’umanità .

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