by Sergio Segio | 1 Settembre 2012 6:51
Sognava un Concilio Vaticano III perché era convinto che la Chiesa cattolica avesse bisogno di profonde riforme. Ma il cardinal Carlo Maria Martini è morto ieri non solo senza aver visto questa nuova assise, ma anzi assistendo alla progressiva demolizione di tutte quelle istanze di rinnovamento avanzate dal Concilio Vaticano II, 50 anni fa, gradualmente e inesorabilmente spente o ridimensionate da papa Wojtyla e papa Ratzinger, principali fautori della cosiddetta «ermeneutica della continuità », ovvero di un’interpretazione del Concilio nel segno della assoluta continuità con la tradizione e il magistero della Chiesa. C’è la «necessità di un confronto collegiale tra tutti i vescovi» – e già l’espressione «confronto collegiale» farebbe accapponare la pelle alla Curia vaticana – su una serie di importanti «nodi» che «riappaiono periodicamente come punti caldi sul cammino delle Chiese», aveva detto Martini al Sinodo dei vescovi europei, nel 1999, elencando anche alcuni di questi punti dolenti: la partecipazione democratica alla vita della Chiesa, i laici, il ruolo della donna nella società e nella Chiesa, «la sessualità », la «disciplina del matrimonio», il «rapporto tra democrazia e valori e tra leggi civili e legge morale». Temi che, chiedeva Martini, devono «essere affrontati con libertà , nel pieno esercizio della collegialità episcopale». La risposta della Chiesa di Wojtyla e Ruini prima e di Ratzinger poi è stata però un’altra: la codificazione dei «valori non negoziabili», sui quali nemmeno si discute. Sepolto così non solo il «sogno» di Martini di un Concilio Vaticano III, ma anche quel poco che restava, e che resta, del Concilio Vaticano II. Nato a Torino il 15 febbraio 1927, giovanissimo entra nella Compagnia di Gesù (i gesuiti) e viene ordinato prete nel 1952. Studia teologia, poi Sacra Scrittura al prestigioso Pontificio istituto biblico di Roma, dove poi insegna e diventa rettore. Nel 1978, poche settimane prima di morire, Paolo VI lo nomina rettore della Pontificia università Gregoriana, l’ateneo romano retto dai gesuiti. Ma lascia Roma presto: alla fine del 1979 papa Wojtyla lo sceglie come arcivescovo di Milano, diocesi che guiderà ininterrottamente fino al 2002, quando si trasferisce a Gerusalemme. E a Milano, la diocesi più grande d’Europa, diventa una figura di primo piano della Chiesa, italiana e non solo. Porta avanti iniziative di carattere spirituale, come le pubbliche letture bibliche in duomo che attirano migliaia di persone, aperte anche agli atei e agli agnostici – perché, diceva, «la vera distinzione non va fatta tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti» -, come la Cattedra dei non credenti, incontri di confronto su vari temi fra cattolici e laici. Proprio perché si accredita come uomo del dialogo, a metà degli anni ’80 i militanti dei Comitati Comunisti Rivoluzionari, gruppo ritenuto contiguo alle Brigate Rosse, consegnano all’arcivescovo le armi, anche per sollecitare una mediazione della Chiesa alla fine della lotta armata. Sul terreno sociale più volte Martini prende posizione per la difesa dei diritti dei poveri e degli emarginati, in particolar modo dei detenuti e degli immigrati, attirandosi, negli anni ’90, forti critiche dai leghisti in ascesa che avevano conquistato anche il Comune di Milano con Marco Formentini. E sul piano politico sostiene la cosiddetta “scelta religiosa” dell’Azione cattolica e di altre associazioni che tentavano di spezzare il dogma dell’unità politica dei cattolici nella Democrazia cristiana e che rifiutavano il ruolo di serbatoio di voti per la Dc, suscitando le ire di Comunione e liberazione e del mondo cattolico più conservatore. Candidato del fronte progressista (minoritario) al conclave che nel 2005 elegge invece papa Ratzinger (anche perché il Parkinson che aveva colpito Martini indebolisce la sua candidatura), negli ultimi anni Martini prende spesso la parola dalle colonne del Corriere della Sera e dell’Espresso, in coppia con Ignazio Marino, sui temi “eticamente sensibili” – dall’inizio della vita alla fecondazione artificiale, dall’omosessualità al fine vita -, per lo più in parziale difformità dal magistero ufficiale. La scelta finale di rifiutare l’accanimento terapeutico ne è stata l’ultima dimostrazione.
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