by Sergio Segio | 21 Settembre 2012 6:16
Ciò che più colpisce, delle Conversazioni tra Eugenio Scalfari e Carlo Maria Martini – adesso raccolte per Fazi con l’introduzione e un commento di Vito Mancuso – è il loro particolare rapporto con il tempo. Non solo, intendo, con il nostro tempo, con questi giorni indelebilmente segnati dalla morte recentissima del Cardinale, ma con la dimensione del tempo in quanto tale, guardata a partire dal punto di fuga che la collega all’eterno. Tutti i dialoghi, come anche i due commossi testi di commiato di Scalfari e Mancuso, si affacciano su quella soglia estrema in cui, incalzati dagli anni, “ci si sente come sentinelle avanzate su un terreno incognito”. E’ un pensiero costante, questo, che non solo non nega la vita, ma conferisce senso e rilievo alle sue opere, come ben sapeva Montaigne quando affermava che “bisogna portare il pensiero della morte come i signori dell’epoca portavano il falcone sulla spalla” – perché prendesse dimestichezza con colui che, fin dalla nascita, comincia a morire. In questo senso, intenso e profondo, si può ben dire che al centro di queste pagine si accampi la vita stessa, interpellata sulle grandi questioni della fede e del sapere, del possibile e del necessario, dell’amore e del potere.
L’energia che ne promana nasce dall’attrito tra queste dimensioni contrastanti che, al limite della loro divergenza, trovano, infine, un inatteso punto di raccordo. Come le prospettive dei due dialoganti, lontane nei presupposti, ma accomunate dallo sforzo di attenzione reciproca. Ciò che sorprende – in uomini con esperienze così diverse come quelle del gesuita Arcivescovo di Milano e del laico fondatore di Repubblica – non è tanto la somiglianza delle domande, ma la ben più singolare consonanza di alcune risposte scaturite da esigenze apparentemente incomparabili. Come due rette parallele che ad un tratto, d’improvviso e contro ogni logica, si toccano, aprendo uno squarcio problematico all’interno dei rispettivi linguaggi. E’ così già in ordine al tema, centrale, della vita umana. Da Scalfari ricondotta alla combinazione di elementi chimici riuniti nel nostro corpo non diversamente da quanto accade alle altre specie animali, ma con in più quella capacità di guardarsi dall’interno che ha assunto il nome di coscienza. Da Martini invece intesa come qualcosa che oltrepassa radicalmente la falda biologico-naturale, per situarsi in una relazione privilegiata con il suo creatore. Per il primo destinata a dissolversi senza lasciar traccia, trascinando nell’oblio anche il nome di Dio, per il secondo destinata, alla fine dei tempi, a rientrare nel grembo divino da cui è scaturita. Eppure, pur nella nettezza di questa alternativa, i due interlocutori condividono qualcosa di decisivo, attinente alla libertà di scelta che rende ogni vita responsabile dei propri atti – perfino nella sua fase terminale, quando l’uomo affronta, da solo, la “nera Signora”. Di tale libertà , come ha ricordato Mancuso, lo stesso Martini ha dato estrema testimonianza staccando, quando ha lo ha ritenuto inevitabile, le macchine che lo tenevano artificialmente in vita.
Il secondo nucleo problematico che il libro affronta, dopo quello che interroga la vita dal margine della morte, è la relazione, nella Chiesa cattolica, tra missione apostolica e forma istituzionale. Come fa Mancuso dal suo interno, anche Scalfari batte con forza sulla contraddizione di una Chiesa che nel corso del tempo ha non solo perseguitato coloro che dichiarava eretici, ma è entrata in relazione diplomatica anche con regimi nefasti, come quello nazista. La risposta di Martini è che essa non avrebbe potuto fare altrimenti a meno di non esporre i cattolici tedeschi alla rappresaglia di Hitler. Più in generale egli ricorda, non senza ragione, che se la Chiesa di Roma non avesse costruito una salda struttura istituzionale sarebbe stata spazzata via dalla storia come è accaduto ad altri movimenti puramente profetici. E tuttavia, anche in questo caso, la distanza delle posizioni lascia trasparire più di un punto di tangenza. Non solo Martini fa chiaramente intendere di condividere le preoccupazioni di Scalfari, al punto da affermare che il papa deve essere prima di tutto vescovo di Roma, ma concede qualcosa di ancora più rilevante sul piano teologico. Si tratta del rapporto, giustamente individuato da Scalfari come decisivo dell’intera vicenda cristiana, tra Monoteismo e Trinità . La ricchezza originaria del cristianesimo, rispetto agli altri due monoteismi, nasce dalla complessità della sua struttura trinitaria, che vieta ogni trasposizione indebita dal monoteismo religioso a quello politico – secondo il modello imperiale che fa corrispondere ad un unico Dio un unico monarca. Lo stesso Martini non solamente attribuisce alcuni caratteri autoritari del Dio dell’Antico Testamento alla difficile instaurazione del modello monoteista in un mondo antico politeista, ma interpreta il dogma trinitario nel senso di una relazione vitale con l’alterità . Solo un Dio capace di contenere in sé la pluralità può spezzare il vincolo dogmatico tra verità e forza.
Il terzo baricentro delle conversazioni è costituito dalla relazione tra pensiero e fede. Mai come in questo caso le posizioni di partenza, tra il cardinale e L’uomo che non credeva in Dio – come s’intitola un libro di Scalfari – sono logicamente lontane. Come può il successore di Sant’Ambrogio dialogare con l’erede di Diderot? Cosa è più lontano dalla problematicità della ragione che la certezza della fede? E come può, la forza del pensiero, coniugarsi con l’ispirazione della preghiera? E’ forse il punto di maggiore distanza delle rette parallele. Ma anche, e proprio per questo, il luogo più straordinario della loro attrazione. Intanto chi conosce i libri di Scalfari sa bene che, dopo o insieme a Diderot, la sua predilezione va al giansenista Pascal – in nome di una ragione sempre pronta a mettersi in dubbio in base alla propria costitutiva finitezza. Ma ancora più decisivo è l’argomento proposto da Mancuso quando nega che la fede in Dio rappresenti un vantaggio sotto il profilo conoscitivo, e perfino etico, rispetto a chi non crede. Se così fosse, se si dichiarasse la verità di fede autonoma dalla ragione e insieme capace di incarnarne l’unica verità , si farebbe una manovra a tenaglia destinata a schiacciare la verità nel calco di un’insostenibile imposizione. Del resto lo stesso pensiero, se non vuole limitarsi alla pura descrizione della realtà così com’è, deve tendere a spingersi oltre se stesso, aspirare a penetrare nello spazio aperto della vita per conferirle quel senso che a volte, o forse sempre, le manca. In questo caso esso, nella sua tensione al mutamento delle cose e degli uomini, non è poi così lontano dalla preghiera. «Quando ci lasciammo – così si conclude l’ultimo testo di Scalfari – lui mi sussurrò nell’orecchio “pregherò per lei” ed io risposi: “Io la penserò”. E lui sussurrò ancora: “Eguale”».
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