by Sergio Segio | 4 Settembre 2012 6:26
Come riprendere un discorso spezzato e negletto su un fenomeno che, al suo apparire, sconvolse, sorprese e destabilizzò il panorama letterario italiano? Come non tener conto della tragica e prematura morte di MariaTeresa a soli quarant’anni, pochi mesi prima della pubblicazione del suo romanzo? Come non ripercorrere la biografia, limpidissima e rigorosa, di una donna che, non è retorico ribadirlo, spese la sua esistenza secondo un modello di vita totalizzante, di estremo sforzo, di uscita dai labirinti soffocanti e vacui del proprio recinto? Di Lascia si iscrive alla facoltà di Medicina di Napoli col preciso intento di diventare missionaria laica, abbandonerà questa strada per avvicinarsi alla politica e al Partito Radicale, del quale sarà deputato per una legislatura e vicesegretario nel 1982. È sua e di suo marito l’idea di fondare Nessuno tocchi Caino, con l’obiettivo dell’abolizione mondiale della pena di morte entro il 2000. Nel 1988 scrive La coda della lucertola ma decide di non pubblicare il romanzo, con la novella Compleanno vince il premio “Millelire”. Coloro che la conobbero la descrivono come una persona colma di un’urgenza verso l’esterno, animata dalla necessità e anche dal piacere di indagare l’altro, attenta, mai cinica. Questa vita, sintetizzata qui in poche righe, è anche racconto, ricordo mediato nel romanzo, sostanza dolorosa che risale a galla per necessità . È un segreto coltivato ostinatamente e con impegno, è scrittura.
MariaTeresa dedica molti anni della sua esistenza così breve a scrivere, lo fa in silenzio, a suo modo, lo fa, credo, per un’urgenza fortissima. In quattro anni conclude il suo romanzo Passaggio in ombra, gli stessi anni che la vedono impegnata sul fronte pubblico per i diritti umani. La dicotomia solo apparente è, in realtà , il segno di un carattere complesso e non pacificato, capace di interrogarsi a lungo nel pudore dell’intimità , una personalità lucida e in grado di osservare tutti con uno sguardo sempre dubbioso, incerto. Un cuore implacabile verso se stesso, uno sguardo disumanizzato, non pensato, non costruito, e per questo così assolutamente necessario in giorni come i nostri. Il superamento del genere è il primo passo per ritrovare in modo totale e generoso il valore della Di Lascia. Nelle letture critiche che seguirono l’uscita di Passaggio in ombra, frequente è il richiamo al rapporto con i modelli, tutti ovviamente femminili.
«Scrittura al femminile»
Il risultato è che a MariaTeresa Di Lascia – come è accaduto a tutti gli scrittori donna italiani – non è mai stato concesso di assumere il ruolo che le era dovuto. La definizione costrittiva e limitante di “letteratura” o peggio “scrittura al femminile” vanifica la forza e il senso vero della capacità creativa assoluta di questa autrice e denuncia il vizio, mai dismesso, di una visione dall’esterno, una visione riduttiva per definizione. L’opera letteraria e la vita di MariaTeresa Di Lascia si pongono al di fuori di una norma corrente, fuori dall’idea che l’esistenza sia pura contabilità , rispondono a una voce, a un’istanza etica di fondo, in un sistema, che è prima esistenza e poi arte, coerente e rigoroso ma sempre umile, sempre comprensivo dell’altro più che di sé. Per questo suo farsi testimonianza – da vita che era – si conferma come assai più potente e viva, assai più destabilizzante e impegnata. Leggendola, ci si trova di fronte a una scrittura fatta col corpo e sul corpo, senza risparmiare una minima goccia di sangue, ogni accento in essa rimanda alle immagini del san Sebastiano alla colonna, del Marsia scorticato da Apollo.
Passaggio in ombra è l’atto ultimo e atrocemente vero di un essere umano in costante dialogo col mondo, con l’altro e – per questo – in costante conflitto con se stesso, nel tentativo di superarsi, addirittura di annullarsi. Io sono, per mia condanna, immersa e travolta dalla realtà . (MariaTeresa Di Lascia, Passaggio in ombra, Milano 1995, p. 14). Immersa e travolta dalla realtà , così si definisce Chiara, la protagonista, voce narrante del romanzo, già dalle prime pagine. MariaTeresa e Chiara hanno evidenti tratti in comune. La prima nasce a Rocchetta Sant’Antonio, quel rospo nero schiacciato sulla collina che, Chiara dice, si colloca in quell’altura che – su tre diversi sentieri – separa la Puglia dalla Basilicata e questa dall’Irpinia. Un luogo geograficamente definito e individuato, come la grande casa di donna Peppina Curatore, vicina al castello, i campi coltivati a grano, la piazza del paese dove gli uomini si radunano per giocare a carte nei bar, le masserie isolate sulla dorsale. È Rocchetta il paese di MariaTeresa, il paese di Chiara, quella stessa Rocchetta che Francesco De Sanctis aveva raccontato nel suo Viaggio elettorale, riservandole alcune delle più belle pagine del libro. Un paese dell’ultimo Appennino, posto dove l’altura inizia a diluirsi nella pianura pugliese, un ibrido a metà tra due paesaggi, al limite di entrambi e mai dentro a nessuno di essi, col suo castello in cima alla rocca, popolato di corvi e di gazze e le sue ripide salite lastricate di bianca pietra lisciata dall’acqua. Il sud di Chiara e quello di MariaTeresa coincidono facendosi luogo ricordato più che vissuto, descritto attraverso il filtro, lungo e lento, della memoria. La parte più nascosta e intima, il grumo molle e delicatissimo di un’esistenza diventa materia da narrare, forse come congedo dalla vita stessa, un congedo consapevole e doloroso, un atto dovuto e splendente di svelamento totale. La famiglia D’Auria è uno dei nuclei nei quali si muove Chiara. Francesco D’Auria, suo padre, era un uomo qualunque che fece le cose che empiono le cronache ordinarie della vita; molte di esse sono squallide e volgari, ma portano il segno dei tempi in cui viviamo. Francesco, che ha fatto la guerra, che dà il suo cognome a Chiara dopo la nascita senza sposarsi, che la rende sua complice di giochi, che abbandona Anita, la madre di Chiara, il giorno del matrimonio. Francesco è il figlio di Tripoli, l’estremo limite del mondo maschile meridionale, del tutto impenetrabile agli occhi della bambina. Francesco è il fratello di Giuppina, violentata e messa in cinta dal compare. Francesco è il nipote di donna Peppina Curatore che alleverà Chiara dopo la morte di Anita, resa sterile dalla sifilide trasmessale dal marito. Anita, Giuppina, Peppina, Rosina, la balia, Titina e altre donne, tutte con storie trasmesse sussurrando, tutte rivolte verso Chiara, verso il suo futuro che dovrà essere a ogni costo luminoso, un riscatto per le loro esistenze costrette o spezzate.
Il nodo più doloroso del romanzo sta, tuttavia, nel paragone con la figura di Anita, la madre-eroina che vive i suoi sogni strenuamente fino a morirne, colei che, come una sorta di Antigone, non cede al mondo della norma – che è norma maschile – scegliendo la morte. Un archeologo della psiche, uno scavatore delle coscienze troverebbe proprio in mia madre, in quel coraggio che in lei scorreva innato, la sfida irraggiungibile a cui mi sottrassi; il coraggio e la forza della madre contro l’inettitudine della figlia prigioniera della vita… rimasta una creatura di confine. Ciò che vince Chiara, o che la rende già vinta sin dalla nascita, è la colpa di non avere coraggio. Una vigliaccheria che si attribuisce dal principio e che le impedisce di accostarsi a ciò che ella crede sia la vita. Chiara non esplicita i suoi desideri, li lascia appassire nella dimensione del sogno, dell’immaginario, della visione. La persistenza della sua abiezione è l’unica forma di lotta che può scegliere contro la necessità del vivere. Abdicare alla vita diviene la soluzione. Esiliarsi nel disordine di cose ammassate senza criterio. Eppure questa condizione ultima deriva da qualcosa di più profondo, da un desiderio più intimo e nascosto che, solo da adulta, Chiara riesce a pronunciare; in questo suo narrare che è cercare l’inizio di ogni inganno, Chiara ammette di appartenere a quella specie di certe creature irrisolte, che denunciano fin dall’aspetto il proprio ibrido destino, a causa di questa discendenza prima di tutto non le è mai stato possibile smemorarsi di se stessa completamente.
Un premio in suo nome a Fiuminati
Anche la cosiddetta denuncia sociale è estranea alla scrittura della Di Lascia, per il motivo che questa scrittura possiede in sé il germe del suo fallimento, quello di una lettura individuale e soggettiva del mondo che pretende di farsi verità e realtà oggettiva, tale presunzione di verità non è presente, l’autrice avverte questo pericolo e lo indica al lettore come sprezzatura del suo scrivere, che corre sul filo del sogno e della suggestione, anche quando pare raccontare il fatto in sé, la cosa in sé. La realtà è solo il velo ricamatissimo e prezioso che ricopre la vera dimensione del racconto, che è fatto di scrittura immaginifica e visionaria. Tutto si sbriciola sotto il peso di ricordi, relazioni, parole, suoni, odori, sensazioni tattili tutte mediate dal ricordo e dal sogno. La scrittura più bella si trova quando la tentazione di descrivere ciò che – solo ai nostri occhi – appare come materiale cede il passo alla visione. Di Lascia non consente mai davvero al mondo, pure descritto, sezionato e analizzato in ogni suo più minimo dettaglio, di prendere il posto della dimensione creativa, il posto della letteratura e della storia interna. L’effetto è quello di una visione ampia che mano a mano, in un processo di restringimento del campo ottico, si focalizza su caratteri e storie individuali, prima solo accennate, poi descritte e narrate fino al parossismo ripetitivo della ricorrenza, della variante. È un romanzo, Passaggio in ombra, un bel romanzo, è una storia in parte autobiografica, è una riflessione sull’esistenza, sullo stare nel mondo e sul come starci, sulle possibilità che ci vengono date e, poi, improvvisamente, strappate via, è una domanda costante e anche l’indicazione di un pericolo, è una richiesta di coraggio, di vita. È un’opera complessa, giocata su più piani, elegante nella sua apparente semplicità , densa di respiro, densa di uno sguardo verso l’Esterno, sbilanciata verso la voragine del fuori da sé.
MariaTeresa Di Lascia ora riposa a Fiuminati, il paese di sua madre, dove lei ha voluto essere seppellita. I suoi due paesi, Fiuminati e Rocchetta Sant’Antonio, le hanno dedicato un premio letterario, la ricordano con quell’affetto mite e gentile di cui solo alcuni luoghi, nell’Appennino d’Italia, sono capaci. E Chiara, nel suo silenzio apparente, forse attende ancora il giorno in cui, rivedendo suo padre, insieme, si abbandoneranno a un sorriso, ormai pacificati e consapevoli che l’unica certezza è un luogo dove il futuro si è già compiuto.
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Deputata radicale, scrittrice di talento
Nata a Rocchetta Sant’Antonio, un comune pugliese vicino Foggia, MariaTeresa Di Lascia conseguì la maturità classica e si iscrisse all’Università di Napoli alla facoltà di Medicina con lo scopo di diventare missionaria laica. Abbandonò tre anni dopo questa attività perché assorbita dall’impegno politico all’interno del Partito Radicale, a cui aderì nel 1975. Nel 1982 fu eletta vicesegretario nazionale del partito, durante la segreteria di Marco Pannella, e deputata durante la IX legislatura. Il 10 settembre 1994, all’età di 40 anni, morì a Roma per un tumore, pochi mesi dopo aver sposato Sergio D’Elia ed aver pubblicato il romanzo Passaggio in Ombra, vincitore del Premio Strega nel 1995.
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