Maglioni, mocassini e parafanghi l’interminabile baruffa tra due modelli di capitalismo

by Sergio Segio | 25 Settembre 2012 8:08

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PER frenare la sua ira contro «i furbetti cosmopoliti», i due italiani con accento straniero, Sergio Marchionne e John Elkann, che guidano la Fiat diventata americana. Lui, il provinciale, residente in quel di Casette d’Ete, terra di ciabattini, diventati imprenditori globali, contro quel che resta del capitalismo aristocratico sabaudo. Che, persa la erre moscia, è rimasto con la voce roca, di chi dorme poco e fuma tanto, e che, al patron di Tod’s, dice: «Non mi rompere le scatole! ». Questo non era mai successo.
Diego Della Valle gliel’ha giurata al «ragazzino» (John Elkann detto Jaki, erede degli Agnelli) che poi tanto ragazzino non è più essendo ormai passati 36 anni da quando nacque in quel di New York. Se n’è andato sbattendo la porta dal patto di sindacato di Rcs, che controlla il Corriere della sera, proprio contro il «ragazzino» il «funzionario » (Renato Pagliaro, presidente di Mediobanca), e da allora ha cominciato a comprare azioni fino all’8,7 per cento di quel che continua ad essere l’incrocio strategico di chi in Italia vuole il potere. Magari con i soldi degli altri o prendendo ordine da altri. Della Valle, invece, ci mette i suoi soldi e vuole comandare. Capitalismo autentico, vecchio stile: idee, progetti, investimenti, rischio. Pochi debiti. E anche molto paternalismo: con i sindacati non tratta ma per i suoi dipendenti fissa i premi e mette polizze sanitarie e buoni libri nella busta paga.
Anche lui, come Marchionne, continua a pagare un dipendente, reintegrato dal giudice dopo un licenziamento, senza farlo lavorare. Questo è quel poco che li accomuna.
Capitalismo glocal da quasi un miliardo di ricavi, quello di Della Valle. «Io sono un privilegiato e posso dire quel che penso e parlo come sono abituato a fare. Non è elegante? Chiedete agli operai di Termini Imerese se è elegante la lettera che hanno ricevuto prima della chiusura della fabbrica. Non si può scaricare sul paese le proprie responsabilità  ». Lo dice pubblicamente alla Bocconi, lo ripete nelle sue conversazioni private. Della Valle «arruffapopolo », commenta Lupo Rattazzi, consigliere di Exor (finanziaria della famiglia Agnelli), figlio di Susanna Agnelli, sorella dell’Avvocato. «Perché — aggiunge Rattazzi — non c’è nulla di più disdicevole di un industriale miliardario che l’arruffapopolo e che alza il livello dei decibel per segnare punti ed avere titoli sui giornali».
Il patron delle Tod’s non assolderebbe mai un manager come Marchionne. E questo non andrebbe mai a produrre borse e mocassini per quanto con i pallini e per quanto ne sia un utilizzatore. Quasi ne ha disprezzo. Dice l’italo-americano con maglione Tommy Hilfiger ma senza etichetta: «Non parliamo di gente che fa borse, io faccio vetture. Quanto lui investe in un anno in ricerca e sviluppo, non ci facciamo nemmeno una parte di un parafango». Baruffe capitaliste con linguaggio da talk show. Se avesse potuto, Diego Della Valle avrebbe replicato in diretta: «Si vede… », garantiscono i suoi più stretti collaboratori.
Il talk show, dunque. Il botta e risposta, come si fa lungo il Transatlantico di Montecitorio tra politicanti perditempo. Il format, come avrebbe detto Edmondo Berselli, ha conquistato anche la nostra presunta borghesia industriale. «Questa è una vera novità », osserva Giuseppe Berta, storico dell’industria e soprattutto della Fiat. Scontro, ma senza un campo di gioco possibile: l’uno ha deciso di andare all’estero per salvare l’azienda (almeno così sostiene); l’altro sta ancorato a un territorio per conquistare quote di mercato all’estero. Per Marchionne il “made in Italy” è un handicap; per Della Valle è la rampa di lancio, il valore aggiunto.
Ma mentre Della Valle annuncia di aver preso la coppia Elkann-Marchionne «con le mani nella marmellata » dove sono gli altri capitalisti italiani? Con chi stanno? Per chi tifano nel talk show tra industriali? La Confindustria, un tempo lobby potente con l’ambizione di dettare l’agenda alla politica e il vezzo di dare lezioni a tutta la classe dirigente tranne che a sé, tace. Giorgio Squinzi preferisce l’afasia alle gaffe con cui si era insediato al settimo piano di Viale dell’Astronomia. Silenzio. Anche perché Marchionne, che curiosamente ieri parlava all’Unione industriale di Torino, si è liberato dai “lacci e lacciuoli” (certo Guido Carli coniò questa formula pensando a ben altro) della burocrazia confindustriale, dei contratti nazionali e dei sindacati conflittuali. Silenzio che è parte della decadenza confindustriale. Che ora presta i suoi past president (Montezemolo e Emma Marcegaglia) per coprire i vuoti della politica che verrà . Anche questo non era mai successo.
Non resta che l’ultima battuta. Quella che qualcuno ha sentito pronunciare a Della Valle: «È ora che Marchionne si rimetta la giacca. La “prova maglione” non l’ha superata. Il maglione lo lasci a Steve Jobs che si inventò Apple». Alla prossima puntata. Il format continua.

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