Luciano Gallino: «Nell’auto non si tornerà mai ai livelli di produzione del 2007»
Forse era tutto scritto nell’accordo Fiat-Chrysler: tecnologie agli americani, soldi agli azionisti italiani, cioè alla famiglia Agnelli, stabilimenti storici, da Mirafiori a Pomigliano, in vita finché la domanda di mercato avesse retto.
Le promesse di Marchionne, il progetto Italia, i venti miliardi di investimenti, un libro dei sogni che politica e buona parte del sindacato hanno letto, con malizia o con ingenuità , come un modo per tirare a campare, illudendo se stessi e illudendo buona parte di quanti nelle fabbriche Fiat si sono guadagnati da vivere e ci contavano ancora.
«Chi ha mai letto – commenta Luciano Gallino, sociologo e grande studioso dell’industria e del lavoro in Italia – una pagina di quel programma. Nelle mani di chi è mai stato consegnato un volume di centinaia di pagine in cui si dettagliassero progetti per la Fiat e conseguenze per l’indotto,in un quadro di enorme complicazione: basti dire che il futuro Fiat si sarebbe dovuto misurare con la realtà di ottocento fornitori. Niente. Quanto ci è stato riferito adesso, quanto siamo venuti a sapere, non aggiunge nulla, se non ancora una promessa, la promessa di Marchionne di investire quando il mercato riprenderà quota. Vaghe e soprattutto strane parole. Perché se davvero le vendite prima o poi dovessero riprendere, la Fiat arriverebbe inevitabilmente in ritardo, seguendo la strada indicata da Marchionne. Sappiamo bene quanto tempo sia necessario per progettare e mettere in produzione un nuovo modello. Due, tre anni? In un mercato ipoteticamente in rilancio, Marchionne si ripresenterebbe con modelli vecchi? Per perdere un altro giro? Siamo alla ripetizione di una scena già vista: non abbiamo ascoltato null’altro che dichiarazioni generiche, senza una prospettiva, senza una novità , senza una invenzione. Faccio un esempio: una grande impresa automobilistica non è detto debba produrre solo proprie automobili, potrebbe realizzare anche parti per altre imprese, motori o pianali. Non mi sembra che Marchionne abbia mai esplorato una possibilità del genere».
Il manager italiano più americano, come lo hanno definito alcuni, o il solerte funzionario di un dipartimento Usa, come lo hanno definito altri, probabilmente sa di finanza, molto meno di auto. Ma, allora, professor Gallino, dobbiamo rassegnarci al ridimensionamento e al declino della Fiat in Italia?
«Ridimensionamento e declino appartengono alla storia degli ultimi decenni. Negli anni novanta la Fiat produceva due milioni di vetture, che sono diventate un milione, ottocentomila, mezzo milione. Adesso siamo a quattrocentomila. Queste sono cifre che dicono tutto. A proposito del passato e a proposito del futuro. Pensiamo al calo degli occupati, anche se in questo caso entrano in gioco nuove tecnologie che hanno consentito di ridurre pesantemente il numero degli addetti».
Il governo deve accontentarsi di ascoltare Marchionne o ha strumenti per intervenire? Ammesso che abbia i soldi…
«È difficile immaginare nuovi incentivi. In passato si usò l’arma della rottamazione. Adesso si finirebbe con il favorire i produttori stranieri più che la Fiat. Se la Fiat non avesse chiuso Irisbus, si sarebbe potuto pensare a un intervento di Stato e Regioni per rinnovare un parco autobus obsoleto, inquinante. Sarebbe stato un bel modo per favorire una mobilità sostenibile e collettiva, alternativa al mezzo privato. Ma non s’è mosso lo Stato, non si sono mosse le Regioni e non c’è più Irisbus. Peraltro costruire autobus non prevede l’automazione in atto nella produzione di auto. L’operazione è più complicata, chiede manodopera specializzata, vi sarebbe stato un bel vantaggio anche per l’impiego. Un autobus, a bilancio, pesa come cinque o dieci auto». Le chiedo di nuovo: dobbiamo rassegnarci a perdere l’auto italiana?
«Non si può pensare di produrre all’infinito e con la stessa intensità di un tempo macchine, frigoriferi, elettrodomestici o altri tradizionali beni di consumo. Nell’auto non si tornerà mai ai livelli di produzione del 2007. Bisogna immaginare altri modelli di sviluppo, con il realismo di chi sa che non si cambia con un clic e sa che cosa significa dal punto di vista dell’occupazione l’auto, rampo di attività produttiva che riguarda chi costruisce,chifornisce,chi(daigommisti ai benzinai) garantisce la funzionalità del sistema. Detto questo bisogna pensare ad altro…».
Ma ci sono le idee? Soprattutto ci sono i soldi?
«Le idee ci sono. Dove intervenire: il dissesto idrogeologico, la scuola, i beni culturali, l’energia… Settori ad alta intensità e qualità professionale. I soldi? Quanti miliardi di euro ha consumato l’Unione europea per tenere in piedi banche e finanza? Poi ci si dice che non si può spendere per rilanciare l’industria».
L’ultima fotografia è quella di un governo che assiste impotente…
«Come sempre, quando non si sa che cosa, si istituisce una commissione che studierà oppure si apre un tavolo di trattativa. Politica industriale non se n’è fatta da tempo. Il governo dei professori è preda di una cultura neoliberale: aspettano che siano gli imprenditori e il mercato ad aggiustare le cose. Considerano lo Stato come il nemico e in frangenti come questi ritengono che lo Stato non debba far nulla. Salvo, appunto, pagare le banche».
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