Lo spettro della «democrazia dispotica» tra di noi

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È molto importante l’iniziativa di Monti di promuovere un vertice europeo a Roma sul populismo.
Discutere di questo significa parlare sia del destino della democrazia, sia del futuro del nostro continente. È sbagliato infatti pensare che il populismo riguardi solo il nostro Paese, così come è stato un errore ritenere che il berlusconismo fosse un fatto solo italiano. Quella che è stata definita «democrazia dispotica» è infatti qualcosa che riguarda molti Paesi europei e una generale patologia della democrazia; non è, come qualcuno ha detto, la pura e semplice «autobiografia» della nazione italiana. Risiede qui il primo merito della iniziativa di Monti: spingere tutti ad uscire da una veduta provincialistica e a misurarsi con un fenomeno che sorge dal fondo della storia europea. Il secondo merito consiste nel costringere tutti a definire con precisione cosa si intenda per populismo. Le parole, infatti, quando vengono usate in modo generico e approssimativo perdono forza analitica, anzi servono a confondere le acque invece di
chiarirle. Da questo punto di vista ci sono alcuni elementi preliminari. Anzitutto è da tener presente che i blocchi sociali e politici che hanno caratterizzato ampia parte della storia del Novecento, compresa quella della cosiddetta prima Repubblica, sono venuti meno. Nel definire queste trasformazioni si sono impegnati sociologi (la società  liquida) ma anche psicologi (la crisi della figura del padre, la caduta del principio di autorità ), ma il «fatto» nella sua durezza è sotto gli occhi di tutti. Non esistono più blocchi sociali compatti che si esprimono, organicamente e in modo diretto, in partiti e in scelte politiche. Tanto meno vi sono organizzazioni politiche che siano nomenclature delle classi. Il che non significa che non esistano più classi o che non ci sia più lotta di classe. Ma come è cambiata la configurazione delle classi, così è mutato il rapporto tra economia e politica, e soprattutto è mutata la relazione tra dinamiche economico-sociali e rappresentanza politica. Questo credo sia il problema di fondo su cui occorre riflettere. Questi processi in Italia sono stati ampiamente rappresentati, e potenziati, dal berlusconismo, il quale è al tempo stesso un effetto e una concausa di questa situazione. Ma non si tratta di un fenomeno solo italiano; anche nelle periferie parigine, e in parti della classe operaia francese, ci sono state scomposizioni dei vecchi blocchi sociali, con forti spostamenti dei flussi elettorali da sinistra verso destra, evidenti nel successo del Fronte di Le Pen. In Italia questi processi si sono accompagnati alla fine della politica di massa, delle culture politiche dell’antifascismo, e all’imporsi sia di nuove modalità  della lotta politica (il leaderismo) sia di nuovi e inediti modelli di relazioni con le parti sociali. Ciò ha comportato anche il consumarsi, nelle vecchie forme, del concetto di destra e di sinistra. È un fenomeno di vasta portata, anche sul piano strettamente ideologico e culturale . Alcuni giorni fa, Luigi Manconi in un articolo assai interessante, si è chiesto come sia possibile che un giornale che si proclama di sinistra diffonda una ideologia di destra. Credo che per capirlo sia necessario inserire questo singolare fenomeno nel contesto generale del populismo e delle molte configurazioni che esso è in grado di assumere. Se questo è infatti possibile è perché, oltre a coloro che fanno il giornale, sono cambiati soprattutto quelli che lo leggono. E questo cambiamento è stato possibile dal venire meno, e poi dal dissolversi anche a sinistra, dei criteri di un’analisi materiale della situazione e dei rapporti sociali e politici e dall’imporsi di un sistematico rovesciamento del rapporto tra apparenza e realtà . Si è persa la capacità  di distinguere, cioè di capire. Sta qui una delle radici essenziali del populismo sul piano ideologico. Ne è conseguito un offuscamento nella capacità  di comprendere, afferrare e contrastare la sostanza dei processi storici sia in Italia che a livello mondiale, con il diffondersi di un forte provincialismo sul piano politico e culturale. Soprattutto ne è conseguito, specie a sinistra, un progressivo ritirarsi verso impostazioni e prospettive di tipo moralistico, che, se da un lato possono garantire consenso, dall’altro sono del tutto impotenti come «strumenti» di trasformazione della realtà : si finisce, infatti, con il guardare alla realtà  dal «buco della serratura». Esistono molte forme di populismo, ma esse hanno tutte alcuni elementi in comune: la critica, anzi il disprezzo, verso la democrazia rappresentativa e i suoi strumenti; il rigetto della mediazione e quindi della politica; l’identificazione dell’avversario con il nemico; la riduzione del lessico a puri insulti, su cui si è soffermato Carlo Galli in un recente articolo.
Per questo parlare del populismo significa affrontare il problema della democrazia e del suo destino; e per questo ha fatto bene Monti a proporre questo vertice. Se si vuole prospettare il futuro occorre sollevare lo sguardo ai grandi problemi e ricordarsi, ogni tanto, che c’è anche quella che si chiama «alta politica».


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