L’inatteso movimento nel cuore dell’Impero

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Noam Chomsky è uno studioso che non ha bisogno di grandi presentazioni. Uno dei maggiori linguisti del Novecento, certo, ma anche uno dei più puntuali fustigatori della politica estera del suo paese. Non è certo incline all’ottimismo, quando prova a individuare una via d’uscita a una gestione oligarchica del potere politico negli Stati Uniti. Ma da quando Occupy Walla Street ha fatto la sua comparsa a New York per poi diffondersi in altre metropoli ha fatto trasparire la convinzione che quel movimento era l’unica novità  politica negli Stati Uniti dagli anni Sessanta. Lo scrive e afferma anche in questo volume edito da Nottetempo, che raccoglie interviste, articoli e relazioni tenute da Chomsky nel 2012 (Siamo il 99%, pp. 106, euro 10,50). Occupy non sta cambiando la politica americana, afferma, ma sta, come un virus, trasformando la società  oltreoceano.
In primo luogo perché Occupy sta sperimentando forme di autogoverno che potrebbero diventare la leva per «democratizzare la democrazia americana», ormai ostaggio delle lobby economiche e delle grandi imprese. Ma anche perché stanno diventando l’occasione di una presa di parola di quel 99 per cento della popolazione sulla quale sono stati «scaricati» i costi della crisi.
Vittime della crisi
L’ottimismo di Noam Chomsky si ferma qui. Non è infatti convinto che Occupy abbia la capacità  di elaborare un programma che abbia la capacità  di aggregare politicamente le «vittime della crisi». Rimprovera, affettuosamente, gli attivisti di non avere una lettura delle dinamiche del capitalismo statunitense, al quale dedica però poche pagine, proponendo una analisi incardinate sull’egemonia della finanza, un parassita che sta uccidendo l’economia reale. C’è però un passaggio in questo volume che merita la dovuta attenzione. Chomsky afferma che Occupy è un insieme eterogeneo, che muta da metropoli a metropoli, da regione e regione. Ha cioè una composizione sociale variabile. Vi sono «i nuovi poveri», ma anche quel settore del lavoro vivo che negli anni Novanta è stato considerato il sale della terra e che la saggistica anglosassone, nella sua tensione normalizzatrice, ha definito la «classe creativa». Ma dentro Occupy ha svolto un ruolo importante anche il tema del «colore della pelle», declinato in una prospettiva emancipatrice, ma potremmo dire postcoloniale, quasi a ratificare che i dispositivi di inclusione ed esclusione della «società  affluente», cari alla sinistra liberal statunitense sono inceppati.
È questa eterogeneità  il punto di partenza, anche nel vecchio continente. Ogni movimento sociale europeo è stato segnato da eterogeneità  da differenze interne. Ne ha costituito un punto di forza, garantendone la diffusione, ma non è da considerare certo la soluzione, ma parte del problema. È ormai diventata una banalità  affermare che i movimenti hanno dinamiche che ricordano quello degli sciami, che si costituiscono e disperdono in base a fattori imperscrutabili. Senza cadere in una misera narrazione del presente, Occupy – e sotto molti aspetti anche gli indignados spagnoli – pongono il problema proprio della composizione sociale dei movimenti, dell’impossibilità  di «pensarli» come una sommatoria di differenze, dove la regola aurea per stabilirne la potenza è il loro grado di condizionamento è la capacità  di influire nella produzione dell’opinione pubblica.
Il libro di Noam Chomsky tocca marginalmente questo aspetto, ma va comunque accettato l’invito a non imboccare la scorciatoia della riduzione del grado di «eterogeneità » presenti nei movimenti. Tutt’al più si potrebbe assistere a un ripiegamento identitario, che più che risolvere il problema lo rende irrisolvibile.
Dunque, fare i conti con la composizione sociale dei movimenti. E qui, nuovamente, Chomsky fornisce un’indicazione preziosa, anche se, come già  detto, si astine dall’affrontarla. Il linguista e filosofo statunitense afferma che il vero ventre della bestia sono i rapporti sociali. Per un movimento sociale questo significa produzione della ricchezza, cioè come interviene il lavoro nel capitalismo. Dentro Occupy, ma questo vale anche per gli indignados, ci sono gli «scarti umani» della produzione capitalistica, ma anche chi lavora nei settori produttivi ad alta specializzazione e, in misura minore, anche nel settore industriale. Sono accomunati da quella precarietà  che è diventata la regola generale nei rapporti contrattuali di lavoro. Sono cioè quella nuova «classe pericolosa» descritta efficacemente dallo studioso anglosassone Guy Standing nel suo libro finalmente tradotto da Il Mulino (Precari).
La scommessa da giocare
Dire che è una «classe pericolosa» perché accumunata da una stessa condizione è come dire che sono tutti essere umani. Più realisticamente ci troviamo di fronte a un lavoro sans phrase, senza aggettivi, che produce ricchezza attraverso la valorizzazione degli eterogenei stili di vita che caraterizzano la cooperazione sociale. Senza cadere in un facile determinismo, la proliferazione delle identità  parziali, degli stili di vita va dunque messa in relazione con il lavoro svolto e le gerarchie che lo caratterizzano. Il problema, allora, è la costruzione di quello spazio pubblico in cui le differenze entrano in una relazione produttiva di politicità .
È questa la scommessa che Occupy chiede di giocare. Sia ben chiaro, assumerla come orizzonte teorico non ha nulla di accademico. Perché parlare di Occupy vuol dire parlare degli indignados e dei movimenti sociali che in Europa si oppongono alle politiche di austerity varate dai governi nazionali su sollecitazione dell’Unione europea. E parlare di Occupy vuol dire parlare anche della realtà  italiana, dove i conflitti sociali continuano a manifestarsi senza che abbiano la capacità  di costruire una lingua comune che contrasti quella «rivoluzione dell’alto» avviata dal capitalismo per uscire dalla sua crisi.


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