Lettori forti in fuga verso il digitale

by Sergio Segio | 12 Settembre 2012 7:12

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La mutazione digitale investe, come un ciclone annunciato, anche il mondo del libro italiano. Al ritardo con cui l’editoria ha affrontato l’avvento dell’ebook, alle difficoltà  delle biblioteche (per tagli di bilancio e problemi di diritti d’autore), fa da contrappeso una risposta vivace e perfino inattesa da parte dei lettori, sul piano del mercato come su quello del protagonismo culturale. Contrariamente a quanto pensavano gli «e-scettici», che sottolineavano i rischi di snaturamento dell’esperienza di lettura e la ristrettezza della domanda e del mercato, a raccogliere la sfida dell’ebook sono stati i lettori forti, quelli che secondo una abusata mitologia sarebbero abbarbicati alla carta come a un salvagente. Forti e spesso giovani, aggiungono le prime statistiche, per completare il quadro di una razza giudicata in via di estinzione. Anche se l’associazione obbligata tra giovani e ebook si rivela ad ogni inchiesta una forma di riflesso condizionato.
La grande migrazione
Mossi dalla curiosità  e dal gusto della sfida, i lettori hanno subito fiutato i possibili valori aggiunti del nuovo medium: migliaia di titoli in un centinaio di grammi, ubiquità  della lettura, facilità  di approvvigionamento, inchiostro amico degli occhi, aumento della bibliodiversità , prezzi più bassi, memorizzazione dei propri appunti, ingrandimento dei caratteri, condivisione immediata dei risultati e delle emozioni di lettura (social reading)…
E così, quando all’inizio di quest’anno hanno iniziato a circolare i dati italiani sull’andamento del mercato librario (con un crollo delle vendite intorno al 20%, che verso fine anno probabilmente arriveranno al 30) e sono stati diffusi quelli dell’inchiesta Nielsen sulla lettura, ci si è accorti subito che all’appello mancavano circa 730.000 lettori, e che la flessione era concentrata tra i lettori forti: per la prima volta lo zoccolo duro dell’editoria italiana, il segmento dei lettori di più di dieci libri/anno, accusava il colpo con un calo del 18% in un anno. E si è fatta strada anche una spiegazione indiziaria ma convincente: i settecentomila in fuga potrebbero essere proprio i lettori migrati dalla carta all’ebook. Considerando che la quota di lettori digitali nel 2012 è stimata intorno al 2,3% della popolazione (dati Aie, indagine Dentro all’ebook), e che nell’ultimo anno sono stati venduti circa 400.000 e-reader (Rapporto sullo stato dell’editoria, 2011), si avrebbe un suggestivo riscontro a questa ipotesi.
Il prefisso «p»
Del resto in America il ciclone era cominciato qualche anno fa, e molti editori italiani e europei avevano temporeggiato, chi sostenendo che l’ebook era un fenomeno americano (se non un’americanata), chi una macchina binaria, un non-libro, un’allucinazione. Se diamo un’occhiata alla situazione attuale nei paesi anglosassoni possiamo farci un’idea di quello che potrà  succedere da noi tra un anno o due. Sul sito di Amazon il sorpasso delle vendite digitali su quelle cartacee è ormai avvenuto da tempo, sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna.
La previsione che fissava al 2016 il superamento generale da parte degli ebook (dati Price-Waterhouse-Coopers) è stata aggiornata dall’Associazione degli editori americani, secondo cui esso sarebbe già  avvenuto, anche come fatturato, a metà  del 2012: 282,3 milioni di dollari contro 229,6. Dal punto di vista linguistico il sorpassoè già  in atto, spiega sul suo blog Antonio Tombolini, autore di un interessante Slow Reading Manifesto: ormai il libro è elettronico, l’ebook ha perso la «e» del prefisso e sarà  il libro di carta, se mai, a doversi qualificare come p-book. Nell’ultimo anno il 21% degli americani ha letto un ebook (The rise of e-reading, rapporto a cura del Pew Research Center), l’11% ha «ascoltato un audiolibro» (una statistica che in Italia non riusciamo quasi a capire cosa significhi…), l’82% usa Internet, il 66% ha la banda larga in casa, il 19% ha un tablet, il 19% un e-reader.
Librerie, biblioteche, case editrici affrontano una gigantesca crisi di riconversione: molte imprese e istituti chiudono, altri sono in difficoltà , molti però aprono o riaprono, tutti con mutamenti e ripensamenti nelle finalità  e nella modalità  dei servizi. Le grandi catene brick and mortar sono le prime a chiudere o ristrutturare, come è accaduto ad esempio a Borders o Barnes&Noble, che ha ceduto molte delle proprie sedi a un outlet di vestiti. Ma contrariamente a quanto ci aveva raccontato il film C’è posta per te di Nora Ephron, le piccole librerie indipendenti e intraprendenti hanno in molti casi almeno una seconda possibilità . A differenza dei pachidermici bazar culturali, possono far pesare i vantaggi di un servizio di prossimità , sempre più personalizzato, che non si limita alla vendita di libri, ma offre informazione, assistenza, organizzazione.
La temuta tendenza alla «disintermediazione» si può contrastare non con un ritorno indietro, ma con un ripensamento delle proprie funzioni, e questa ricerca accomunerà  sempre di più librerie e biblioteche. E sarà  possibile anche un rilancio dei punti fisici di vendita o di prestito, naturalmente concepiti in modo diverso dal passato. Ma anche per gli editori la possibilità  di un rapporto diretto tra autori e lettori (sono tempi bellissimi per essere un autore, ha detto Mark Coker in un’intervista a Forbes) apre nuovi scenari, come si sta scoprendo nella partita del self publishing, che per essere veramente self (e non l’ennesima metamorfosi della vanity press) ha bisogno ancora, e come, di un vero editore alle spalle.
Il punto interrogativo più interessante, infatti, non riguarda la proclamata e per fortuna mai avvenuta «fine del libro», ma l’espansione della lettura che la rivoluzione digitale potrebbe favorire, magari in forme trasversali.
Prescindendo dall’analisi delle mutazioni culturali che toccano la lettura, i primi dati non sono così negativi come spesso si sostiene. Il rapporto Pisa 2012 dice che gli internauti «leggono meglio». Dai dati di Amazon UK apprendiamo che i possessori di un ebook acquistano in media quattro volte più libri di quanto facevano in precedenza. Secondo il rapporto del Pew Research Center, il 41% dei proprietari di tablet e il 35% di e-reader dichiara di leggere di più dopo la apparizione degli ebook. L’88% dei lettori digitali legge anche su carta, e, come si ricava da una delle prime inchieste italiane sull’argomento (Università  Bicocca di Milano in collaborazione con l’editore Blonk), tende a leggere più libri cartacei rispetto alla media.
Saldi quotidiani
Di fronte a tutto ciò la situazione italiana appare caratterizzata da una situazione di stallo sostanziale, che è eufemistico continuare a definire e assolvere come semplice ritardo. Sul piano del mercato qualcosa si è mosso (a metà  2012 i titoli in commercio sono 31.416), ma il fatturato è ancora sotto l’1% del totale. Alla scelta di centellinamento dei titoli, assurda se si pensa che ormai ogni testo nasce in formato digitale, si aggiunge una politica di prezzi ben lontana dall’obiettivo del 50% rispetto al cartaceo, che non è solo quello richiesto dai lettori ma quello necessario al mercato per decollare. La grande editoria sembra aver scelto la strada di un modello economico e culturale che trasferisce al digitale molte delle anomalie del sistema analogico, anche quando non hanno più senso (si pensi alla sparizione della distribuzione e dei suoi costi).
Si preferisce puntare sul modello cosiddetto «agency», in cui le politiche di prezzo, sconto e promozione vengono decise unilateralmente dagli editori, senza spazi di contrattazione per i retailer. Nasce così quel piccolo mostro che è il daily deal: l’offerta, sugli store digitali, di un titolo al giorno, deciso dall’editore, al prezzo civetta di 99 centesimi. Invece di abbassare ragionevolmente i prezzi si fanno i saldi, anzi il saldo, visto che il titolo offerto è quasi sempre unico. Come ha detto Marco Ferrario (Bookrepublic), è «il trionfo dell’acquisto di impulso, l’appiattimento delle motivazioni di acquisto», in base al quale si finisce per acquistare un libro che non interessa e spesso nemmeno si leggerà .
Particolarmente irritante, anche perché particolarmente depistante, è la tendenza a fare del lettore il capro espiatorio: se le librerie sono in difficoltà  è colpa dei lettori che acquistano su Internet, sedotti dal diavolo Amazon, se la qualità  scende è perché i lettori insaziabili e consumisti vogliono prezzi bassi ad ogni costo. Naturalmente una politica di drastico abbassamento dei prezzi, che comunque non si vede all’orizzonte, oltre a non essere la panacea, è foriera di ulteriori rischi per la qualità  dei prodotti editoriali. L’intubazione del libro nel tritacarne del marketing e dell’utile per singola unità  pubblicata, come ha mostrato André Schiffrin, inascoltato e inviso ai suoi colleghi editori, ha prodotto solo disastri. Ma l’idea che i prezzi del digitale vadano tenuti alti per difendere la qualità  dei prodotti, o per salvaguardare il cartaceo, avanzata con grande vis polemica dallo staff di Neri Pozza in una recente discussione su twitter con la giornalista del Post Chiara Lino, appare destituita di fondamento, come sanno bene i lettori che comprano ebook a 15 euro pieni di refusi, spazi bianchi, errori di formattazione e indici «incliccabili».
La politica «stop and go»
Si può certo condividere la preoccupazione relativa al degrado «del modo di leggere, produrre, condividere e vendere libri» che muove l’appello pubblicato da «Le Monde» e firmato da 451 operatori della filiera e da intellettuali e filosofi come Giorgio Agamben. Ma l’individuazione del «nemico» nel web 2.0 (modalità  comunicativa o etichetta convenzionale che accomuna fenomeni diversi tra loro) non convince completamente. Non è il protezionismo o la contrapposizione con il mondo digitale, ma la difesa della cultura dei beni comuni che salverà  il libro, sia cartaceo che elettronico.
Un’altra vittima di questa politica di stop and go è rappresentata dalle biblioteche e dai loro utenti. Tecnicamente è tutto pronto per il prestito digitale in biblioteca, che permetterà  il download sui terminali dei lettori di una copia elettronica a durata limitata, illeggibile dopo la scadenza del prestito. Molti operatori, come MLOL, Data Management, Overdrive, sono già  attivi. A mancare è una disponibilità  di titoli adeguata e un buon accordo con gli editori, che tendono a vedere il digital lending come un veicolo di pirateria e un concorrente all’acquisto. Il modello economico verso cui va il digital lending è così quello che prevede l’acquisto da parte delle biblioteche del libro in versione elettronica a prezzo di copertina, più una quota associativa per gli «aggregatori» (le piattaforme digitali che realizzeranno l’accesso al file e che stanno assumendo un ruolo simile a quello dei distributori nel mercato analogico), più un tanto (e spesso davvero tanto) a download. Una somma che rischia di essere proibitiva per i bilanci taglieggiati di molte biblioteche pubbliche. Il tutto retto dalla regola one copy-one user (quando un utente ha in prestito una copia nessun altro può scaricarla), che nega lo «specifico digitale», ossia la possibilità  di utilizzare un bene senza toglierlo a un altro. E con poche o nessuna garanzia, per la biblioteca, di continuare ad accedere ai libri digitali in caso di interruzione dei contratti o di cambiamento negli accordi.
Prestito a pagamento
Si delinea così un sistema ibrido in cui l’eredità  analogica viene utilizzata per tarpare le ali al digitale con l’aggiunta di «lucchetti» come i DRM, che non danno problemi alla pirateria organizzata mentre ne creano agli utenti e alle biblioteche. In questo modello ad essere messo in discussione è il concetto stesso di prestito – che è una delle principali ragioni di esistenza delle biblioteche e del sistema dei beni comuni culturali, oltre che uno strumento di redistribuzione del capitale intellettuale e di condivisione della lettura e dei saperi. Come già  era accaduto in occasione della direttiva europea 92/100 sul diritto d’autore in biblioteca, si afferma per vie traverse l’impagabile ossimoro del «prestito a pagamento», che tale è anche quando viene scaricato sulla fiscalità  generale e viene risparmiato, come finora per fortuna è successo, l’utente «finale».
In sostanza, più presti o prendi in prestito e più paghi, con una proporzionalità  inversa rispetto all’efficienza con cui la biblioteca realizza la sua missione, che dovrebbe essere quella di far leggere, di calmierare il mercato, di promuovere l’alfabetizzazione digitale. Tutto lascia pensare che il neoliberismo culturale, vestito con i panni monopolistici del padrone digitale di turno, abbia deciso di andare all’arrembaggio delle biblioteche, come di altri beni comuni. Tanto, la cultura non si mangia e le biblioteche a molti stanno pure sullo stomaco.

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