by Sergio Segio | 19 Settembre 2012 7:21
Chi oggi chiede di stimolare la domanda interna con spesa pubblica ha perso contatto con la realtà : la nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza che verrà presentata dal Governo a fine settimana dovrà per forza di cose riconoscere che la recessione quest’anno sarà quasi due volte più dura del previsto e che questo farà aumentare il deficit pubblico nel 2012 di almeno mezzo punto di pil. Il governo ha escluso di voler ricorrere ad una manovra bis. Ma è certo che in questo modo l’obiettivo del bilancio in pareggio nel 2013 si allontana ulteriormente e soldi per misure espansive proprio non ce ne sono.
Dobbiamo contare sulle nostre forze. La svolta della Bce è servita a prendere tempo, stabilizzando i mercati e riducendo lo spread, ma anche sperando che questo armistizio duri più a lungo che in occasione di precedenti interventi dell’Eurotower, non servirà comunque a migliorare la congiuntura. A differenza della Fed, la Bce non sta mettendo direttamente soldi nel circuito dell’economia, ha solo promesso un intervento condizionato, definito in modo tale da essere altamente improbabile. È come se avesse messo uno spaventapasseri in un campo di grano arso dalla siccità . Speriamo che basti. Inoltre non si è impegnata a tenere i tassi il più possibile vicino allo zero, cosa che avrebbe spinto ad una svalutazione dell’Euro, stimolando la crescita delle esportazioni soprattutto nei paesi del contagio.
L’unica spinta alla nostra economia può oggi provenire dalla domanda estera. Dobbiamo renderci più competitivi sapendo di non poter svalutare la moneta rispetto ai nostri maggiori partner commerciali.
Tre sono le strade per raggiungere questo obiettivo. La prima è quella di una svalutazione fiscale, che abbassi il cuneo fiscale finanziando, almeno in parte questo intervento con un aumento dell’Iva. Il Governo si è impegnato a non aumentare le aliquote Iva, ma una parte del gettito potrebbe essere reperita armonizzando le aliquote, il che servirebbe anche nel contrastare l’evasione, assai diffusa nel caso della tassazione indiretta. Anche le risorse della spending review potrebbero essere destinate prioritariamente alla riduzione delle tasse sul lavoro, anziché disperdere le esigue risorse disponibili nei tanti piccoli interventi, non pochi di dubbia efficacia, previsti dal decreto sviluppo bis.
La seconda strada è quella degli aumenti di produttività . In effetti è in gran parte dall’andamento deludente del prodotto per ora lavorata nell’industria quanto nei servizi che si è accumulato il divario di competitività nei confronti degli altri paesi dell’area dell’Euro, a partire dalla Germania, dal 2000 in poi. Ma aumentare la produttività è più facile a dirsi che a farsi. Bene sperare che le riforme strutturali diano i loro frutti, ma prudente non contarci, almeno nell’immediato.
La terza strada è quella che passa attraverso la moderazione salariale ottenuta attraverso una revisione delle regole della contrattazione. Di questo si sta ora discutendo nei confronti fra le parti sociali, lontani dal polverone del negoziato col governo sulla produttività . È un bene che il pallino sia ora in mano alle parti sociali e che si voglia dare attuazione agli accordi di luglio e settembre 2011 che puntavano su di un’espansione della contrattazione aziendale. Si è già perso troppo tempo e bisogna essere concreti. Si discute di rappresentanze sindacali, cosa fondamentale per avere qualcuno che possa sedersi al tavolo e prendere impegni con la controparte anche quando i sindacati sono divisi, e di abolire la tutela automatica del potere d’acquisto dei salari. Sin qui i contratti nazionali prevedevano un incremento automatico in base alle previsioni (prima dell’Isae e ora dell’Istat) sull’andamento dell’indice dei prezzi al consumo armonizzato a livello europeo (Ipca), depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici. Abolendo questa regola, è possibile che, d’ora in poi, i contratti nazionali possano comportare riduzioni in termini reali delle retribuzioni. Per capire il significato di questa scelta così difficile per il sindacato, dato il basso livello dei salari in Italia, bisogna guardare all’esempio della Germania nell’ultimo decennio. In questi anni la produttività per ora lavorata è aumentata di quasi il 2 per cento all’anno e, nonostante questo i salari sono cresciuti solo dello 0,5% all’anno. In altre parole, solo un quarto dei guadagni di produttività è finito nelle tasche dei lavoratori. Da noi, nello stesso periodo, la produttività del lavoro è aumentata mediamente dello 0,4% e i salari dello 0,9%, quindi le retribuzioni, pur rimanendo al palo, sono cresciute due volte di più della produttività . Questo spiega i 25 punti di competitività (tecnicamente si chiama costo del lavoro per unità di prodotto), persi in questi 12 anni nei confronti della Germania.
In Germania i contratti di categoria non prevedono alcun aggiustamento automatico all’inflazione (la Bundesbank aveva vietato qualsiasi tipo di indicizzazione). Però nei contratti collettivi ai vari livelli gli incrementi salariali richiesti dal sindacato hanno sempre una componente legata all’inflazione e i salari storicamente hanno tenuto il passo con la dinamica dei prezzi al consumo. C’è però una differenza importante fra Italia e Germania: da noi ci sono molte più piccole imprese che da loro, e per queste imprese i contratti nazionali sono l’unica fonte di variazione dei salari. Nel momento in cui si abolisse l’aggiustamento in base all’Ipca, bisognerebbe allora introdurre delle clausole che leghino automaticamente i salari all’andamento della produttività . Ad esempio, si può stabilire che il 50 per cento di ogni incremento del reddito lordo operativo per addetto venga trasferito in busta paga. Questa regola dovrà essere applicata in tutte le imprese a meno di accordi aziendali che dispongano diversamente. In altre parole, anche dove non c’è il sindacato, ci potranno essere incrementi salariali a fronte di incrementi di produttività , senza dover necessariamente passare attraverso un tavolo di contrattazione e un negoziato con il sindacato. Bisognerebbe anche garantirsi che questa riforma delle regole della contrattazione non aumenti ulteriormente la povertà fra chi lavora. Questo significa introdurre un salario minimo orario che valga per tutti i lavoratori, per tutti i settori produttivi e periodicamente aggiornare questo compenso minimo in modo tale da tenere il passo con l’inflazione. Anche questa misura sarebbe funzionale a un maggiore decentramento della contrattazione e, al tempo stesso, tutelerebbe il potere d’acquisto dei lavoratori in posizione più debole. Non crediamo che l’Europa e i mercati finanziari avrebbero alcunché da obiettare a una misura di questo tipo che, non a caso, è all’agenda politica anche in Germania. Chissà che, per una volta, possano essere loro a
prendere esempio da noi!
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