«Dignità  per la Palestina»

by Sergio Segio | 11 Settembre 2012 6:50

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«Mettiamo fine al silenzio sulla dipendenza dell’Autorità  nazionale palestinese dallo Stato occupante, alla corruzione dilagante nelle nostre istituzioni». Non fa sconti a nessuno il documento diffuso da “Palestinians for Dignity”, il movimento palestinese che questo pomeriggio terrà  a Ramallah una manifestazione di massa contro l’aumento dei prezzi e, più di tutto, il Protocollo di Parigi che blinda l’economia palestinese e la mette sotto il controllo completo di Israele. Sotto accusa, ancora una volta, gli accordi del 1993-1994 tra Israele e Olp che portarono alla nascita dell’Anp a condizioni svantaggiose. Sul terreno, 19 anni dopo quelle intese, il governo palestinese controlla meno del 20% della Cisgiordania ed inoltre Israele decide cosa entra e cosa esce dalle aree autonome. La frustrazione perciò cresce.
Autotrasportatori, impiegati, operai delle cave, insegnanti, studenti sfilano da giorni per le strade delle città  autonome palestinesi scandendo slogan contro la politica economica del premier Salam Fayyad, appena salvato dalle dimissioni dal presidente Abu Mazen. È una protesta per certi versi inedita, che unisce temi sociali ed economici alla battaglia contro l’occupazione israeliana. Alcuni gettano acqua sul fuoco. «Non è una Intifada sociale» affermano. Altri sostengono che dietro le manifestazioni ci siano gli islamisti di Hamas che tentano di dare la spallata ad Abu Mazen. Invece parlando con i manifestanti ci accorge che in maggioranza sono di Fatah, il partito-spina dorsale dell’Anp, e delle formazioni della sinistra. Lo sa bene il ministro degli Affari Civili (ed esponente di Fatah), Hussein al-Sheikh, che non a caso ha chiesto che la revisione profonda del Protocollo di Parigi, anche per spostare sull’occupazione israeliana la pressione popolare. «Chiediamo la riapertura del Protocollo di Parigi, incompatibile con l’attuale situazione economica», ha detto Sheikh.
«Per troppi anni (i leader dell’Anp) sono rimasti in silenzio di fronte alla rapina dell’economia palestinese da parte degli israeliani, ora all’improvviso denunciano il Protocollo di Parigi che andava abbattuto e sepolto sin dal primo giorno», commenta un attivista di “Palestinians for Dignity” che ha chiesto l’anonimato. Non ha tardato ad arrivare la risposta israeliana: su secco “no”. «Non sono d’accordo con la riapertura dei negoziati sul trattato economico – ha detto il vice ministro degli esteri Ayalon – perché troppo interconnesso con gli accordi politici per poter essere modificato». E Ayalon non ha mancato di ricordare i debiti per decine di milioni di dollari che l’Anp deve alla società  israeliana per l’energia elettrica.
Firmato il 29 aprile 1994, il Protocollo di Parigi intreccia dipendenza economica e occupazione militare. Se da un lato l’Anp è responsabile in materia di importazione e politica doganale dall’altro questa autorità  è limitata a pochi beni e determinate quantità  che devono essere decise sempre e comunque con Israele. L’economia palestinese dal 1994 a oggi di fatto è stata aperta solo verso l’occupante. Se si tiene conto che le merci palestinesi per entrare in Israele devono essere sottoposte ad una infinità  di controlli ed ottenere diverse autorizzazioni, è facile capire perchè i palestinesi importano per un 80% da Israele ed esportano pochissimo. A causa del Protocollo di Parigi l’Anp non ha la possibilità  di controllare l’aumento dei prezzi e di svolgere delle politiche economiche incisive. L’accordo, ad esempio, stabilisce che se la benzina aumenta in Israele deve aumentare automaticamente nei Territori occupati e il prezzo non può essere inferiore più del 15% a quello israeliano. I carburanti non possono essere importati dai paesi vicini ma acquistato dalle compagnie petrolifere israeliane. L’Iva sui prodotti commercializzati in Cisgiordania e Gaza può essere inferiore a quella israeliana solo del 2%. E tenendo presente che il reddito pro capite nei Territori occupati è inferiore di venti volte rispetto a quello israeliano, sono immaginabili gli effetti dirompenti che queste imposizioni hanno sulla vita quotidiana dei palestinesi. Infine, non certo per importanza, c’è il capitolo della raccolta delle tasse e dei dazi doganali che Israele svolge per conto dell’Anp ai valichi di frontiera e tra i palestinesi che lavorano nello Stato ebraico. Questa facoltà  permette a Israele di poter congelare somme enomi – decine di milioni di dollari ogni mese – tutte le volte che scoppia una crisi politica tra le due parti, rendendo ricattabile il governo palestinese.
Ora la popolazione palestinese presenta il conto, non solo a Israele ma anche ai leader dell’Anp che per troppo tempo hanno taciuto su queste condizioni inaccettabili.

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