L’Alegrà­a di Claribel

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«Di patria nicaraguense e matria salvadoregna», come ama definirsi Claribel Alegrà­a, nata a Estelì, piccola città  del Nicaragua nel 1924, è una scrittrice e poetessa tradotta in 15 lingue, considerata la contemporanea più importante dell’America Latina. A Santa Ana nel Salvador Claribel trascorre l’infanzia e l’adolescenza, dove vive per la prima volta la spietatezza di una dittatura. L’impressione è così forte che lei scomporrà  e ricomporrà  questo periodo di vita nei romanzi, nei racconti e in tantissime delle sue poesie. Si laurea in Lettere e filosofia alla George Washington University, città  in cui incontra Darwin J. Flakoll, che sposa nel 1947. La coppia avrà  quattro figli e vivrà  in una comunione di amore, ideali, viaggi, creatività . Nel 1948, grazie all’aiuto del Nobel per la letteratura Juan Ramà³n Jiménez, viene pubblicata la sua prima raccolta di poesie, Anillo de Silencio. Nel 1978 riceve a Cuba il Casa de las Américas, il più prestigioso premio letterario centroamericano.
Negli anni ’70 Claribel aderisce al Fronte Sandinista di Liberazione (d’ispirazione marxista) e partecipa attivamente alle proteste nonviolente contro la dittatura di Anastasio Somoza Debayle. Dopo aver vissuto in vari paesi europei e latinoamericani, nel 1979 Claribel e Darwin scelgono di trasferirsi in Nicaragua e scrivono, tra le altre cose, libri-testimonianza sulla realtà  centroamericana. Uno di questi, Ceneri di Izalco, che racconta di una toccante storia d’amore nel contesto della repressione e dei massacri del 1932, perpetrati contro i contadini indios del Salvador, è stato tradotto per la prima volta in italiano l’anno scorso per Incontri editrice di Sassuolo. Così è stata finalmente anche compiuta la volontà  di Italo Calvino, che per primo aveva tentato di tradurre l’autrice nella nostra lingua.
Claribel Alegrà­a oggi vive a Managua e ha al suo attivo una produzione ricchissima, che comprende romanzi, saggi, libri per bambini e raccolte poetiche. È uscita in questi giorni per sempre per Incontri la raccolta di poesie Alterità , con una toccante introduzione di Gioconda Belli, pubblicata in occasione della partecipazione di Claribel al Poesia Festival di Terre dei Castelli (Modena), che ha dato anche il via al tour italiano della scrittrice.
I versi di Claribel Alegrà­a sono semplici, eleganti e luminosi. Parlano della vita, dei soprusi subiti dai più deboli, delle ferite che lascia in noi la morte dei «nostri morti», dell’ordine naturale delle cose e del disordine creato dalle ingiustizie che l’uomo commette sull’uomo e sulla natura. Lei si immedesima nei personaggi mitologici e biblici, sovvertendo talvolta i loro destini nel tentativo di rendere «più giusto» il corso della storia e il mondo che la circonda. Cerca le sue radici nella mitologia indigena dei maya e degli aztechi e riscatta le figure leggendarie oltraggiate dai conquistatori e dalla loro cultura imposta. Claribel fonde tutto questo in una singolare e limpida voce che denuncia e interroga, dialoga col mistero, combatte e, anche quando perde, non si arrende perché in lei prevalgono l’amore e la luce. Come dice di lei lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano, «Claribel è uguale al suo nome», chiara e bella, e così anche la sua poesia.
In un mondo dove le parole sono spesso strumenti d’inganno, gli scrittori e i poeti non dovrebbero assumersi la responsabilità  di chiedersi: «Quante volte riusciamo ad essere ciò che scriviamo?».
Sì, credo che gli scrittori e i poeti abbiano davvero la responsabilità  di porsi questa domanda. E il mio pensiero va subito a poeti come Roque Dalton, Otto René Castillo e Leonel Rugama, che hanno vissuto secondo ciò che predicavano, consegnando la propria vita. Per quello sono stati assassinati.
In molti paesi del mondo ci sono poeti che ancora oggi vengono censurati, minacciati, arrestati, esiliati e talvolta persino uccisi, come ad esempio il saudita Hamza Kashgari che rischia il patibolo per una sua composizione o il cinese Zhu Yufu, condannato a sette anni di prigione per alcuni versi o la giovane scrittrice colombiana Angye Gaona che rischia 20 anni di carcere. Perché la poesia, se è libera, mette così paura al Potere?
Il Potere teme tutto ciò che è espressione libera, non solo i poeti.
Nel linguaggio poetico l’amore è l’argomento più abusato e spesso banalizzato. Com’è possibile trasformarlo da un fatto personale e autocelebrativo in qualcosa di collettivo e universale, in una rivendicazione, un atto di resistenza per difendere la propria umanità  dalla disumanità  che incombe?
Si abusa a volte dei temi dell’amore e della morte e certamente si banalizzano. L’autore, scrittore o poeta, deve tenere conto del fatto che ciò che egli vuole esprimere non appartiene solo a lui e che nel comunicarlo deve cercare di renderlo universale. Certo, deve tentare di difendere i suoi scritti dalla disumanizzazione, per questo motivo è necessario che ogni giorno si sforzi di scrivere meglio, di essere più onesto con se stesso nell’aiutare il lettore a scoprirsi.
Tranne alcuni casi, in Italia i poeti contemporanei più conosciuti e celebrati utilizzano per lo più un linguaggio di nicchia ricercato e complesso, che li relega nei percorsi autoreferenziali dei circuiti accademici e dei salotti letterari, distanti dalla capacità  di comprensione della gente comune. Che ne pensi e cosa consiglieresti loro?
Parlerò di me, del caso mio, perché non ho il diritto di parlare per gli altri. Attraverso la mia poesia voglio comunicare e cerco di essere trasparente, di eliminare le foglie morte. Ho scelto il verso libero, mentre altri poeti si sentono più comodi scrivendo in modo barocco, e perché no? Bisogna essere liberi, cercarsi e ricercarsi; provare a trovare la propria misura. Sono i lettori poi a scegliere.
Parlando di pregiudizio, di settarismo e di muri che dividono, la poesia normalmente viene relegata in compartimenti stagni di appartenenza, separata dagli altri linguaggi dell’arte e della comunicazione. Che ne pensi di una possibile riunificazione, di un’interazione tra i diversi percorsi espressivi?
Tanto più si tenta di relegare la poesia, quanto più essa brilla da tutte le parti e si introduce nelle diverse forme di espressione, non solo nella letteratura, ma in tutte le altre arti e nella scienza. Ecco, la poesia invade la scienza.
Come possiamo andare al senso più autentico della poesia, alla sua funzione sociale, al suo ruolo, alla sua utilità , se spesso invece siamo prigionieri di formalismi letterari, di gabbie stilistiche, di parametri grammaticali e persino di sperimentazioni eccessive che gli stereotipi e le convenzioni che monopolizzano questo linguaggio ci pongono e ci impongono?
Penso che i poeti non debbano cercare di essere utili alla società  come qualsiasi altro individuo. Non è che io pensi che una poesia o una raccolta di poesie possa cambiare il mondo, però può certamente aiutare ad aprire gli occhi, a cercare. Per me lo hanno fatto Vallejo, Pessoa, Ungaretti e tanti altri.
Se, come credo, è vero che tutte le persone nascono con la poesia, ma la maggior parte semplicemente lo dimentica, quel che conta non dovrebbe allora essere soltanto la poesia stessa, finalmente senza fregiarci del titolo di poeti?
Anch’io lo credo, sono d’accordo con te che nasciamo tutti poeti. Quale bambino non è poeta? La cosa brutta è che a metà  strada ci smarriamo e dimentichiamo il nostro stupore. Diventiamo più complicati, impermeabili, insensibili.
(traduzione di Zingonia Zingone)

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IN TOURNà‰E

Versi luminosi per l’Italia

29 e 30 settembre: Poesia Festival dell’Unione Terre di Castelli (Modena)
4 ottobre: Istituto italo-latinoamericano (Roma)
5 ottobre: Palazzo Valentini, Provincia di Roma (Roma)
7 ottobre: Teatro di Anghiari (Arezzo)
8 ottobre: Fondazione Il Fiore (Firenze)

The american way of death

A Erik
Se scali giorno e notte la montagna
e ti apposti dietro gli arbusti
(lo zaino-fallimento sta crescendo,
apre crepe la sete nella gola
e la febbre del cambiamento
ti divora)
se scegli la guerriglia,
sta’ attento,
ti ammazzano.
Se combatti il tuo caos
con la pace,
la non violenza,
l’amore fraterno,
le lunghe marce senza fucile
con donne e bambini
e ricevi sputi in faccia,
sta’ attento,
ti ammazzano.
Se la tua pelle è scura e cammini scalzo
e ti rodono dentro i lombrichi,
la fame,
la malaria: lentamente ti ammazzano.
Se sei un nero di Harlem
e ti offrono campi da football
con il pavimento d’asfalto,
un televisore in cucina
e foglie di marijuana:
poco a poco ti ammazzano.
Se soffri d’asma
se ti esaspera un sogno
– che sia a Buenos Aires
o ad Atlanta-
che ti spinge da Montgomery
fino a Memphis
o ad attraversare a piedi la cordigliera,
sta’ attento:
diventerai un ossesso
e sonnambulo
e poeta.
Se nasci nel ghetto
o nella favela
e la tua scuola è la cloaca
o l’angolo,
prima devi mangiare,
poi pagare l’affitto
e nel tempo che ti avanza
sederti sul marciapiede
a veder passare le macchine.
Però un giorno ti arriva la notizia,
corre la voce,
te la dà  il tuo vicino
perché tu non sai leggere
e non hai un soldo
per comprare il quotidiano
o ti si è fottuto il televisore.
In un modo o nell’altro
ti arriva la notizia:
lo hanno ammazzato,
sì,
te lo hanno ammazzato.


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