by Sergio Segio | 19 Settembre 2012 6:30
BEIRUT. L’incedere è lento, un piccolo passo dopo l’altro, sul palco del bellissimo centro culturale di Ghobeiri, la municipalità a sud di Beirut che include anche il campo profughi di Shatila. «Siamo qui riuniti in questo giorno di dolore e di grande gioia» dice Antonietta Chiarini, di fronte a centinaia di palestinesi, libanesi, italiani e attivisti giunti da ogni parte del mondo. Seduta in mezzo al pubblico la nipote Tullia, figlia del fratello Stefano, la osserva con occhi colmi d’ammirazione. «È un giorno di dolore perché ricordiamo i morti di un massacro orrendo avvenuto trent’anni fa…è anche però un giorno in cui chiamiamo le cose con il loro nome, le vittime sono vittime, gli aggressori aggressori, gli assassini assassini…È un giorno anche di gioia perché vediamo in quale grande errore sono caduti i nemici della verità . Volevano cancellare il ricordo di Sabra e Shatila. I nomi dovevano essere sepolti in una grande discarica assieme ai morti. Era questo il progetto di tanti governi e mezzi di comunicazione. Invece Sabra e Shatila è stato un lievito che è cresciuto nella nostra memoria. Chiediamo giustizia per i morti e per i vivi affinchè siano riconosciuti i loro diritti, a cominciare da quello al ritorno nella loro terra». L’applauso è scrosciante. Antonietta sorride, ringrazia e a piccoli faticosi passi torna al suo posto. È felice. Stefano, suo fratello e nostro collega al manifesto, non c’è ormai da cinque anni. Lei è riuscita, con poche parole cariche di affetto e passione, a farlo ritornarne tra di noi, anche se solo per qualche momento, assieme al suo impegno volto a non lasciar cadere nell’oblio il ricordo dei tremila palestinesi massacrati tra il 16 e il 18 settembre del 1982 a Sabra e Shatila dai falangisti libanesi, sotto gli occhi dell’esercito di occupazione israeliano.
Si deve a Stefano Chiarini se nel punto di Shatila, divenuto con il passare degli anni una discarica sopra una fossa comune, oggi sorge un memoriale. Anzi, è qualcosa di più di un memoriale, è un luogo dove gli abitanti possono ritrovare un po’ di quiete, lasciandosi alle spalle per un attimo la miseria, il degrado, gli edifici fatiscenti del campo profughi. Tra queste case separate da vicoli larghi poco più di un metro, sulla strada principale di Shatila affollata di bancarelle di povera gente, ha sfilato ieri il corteo di un centinaio di italiani coordinati dal «Comitato per non dimenticare Sabra e Shatila». La sera prima c’era stata la marcia dei comitati popolari e delle ong palestinesi alle quali aveva preso parte una delegazione di Assopace e di Ingegneri senza Frontiere. Le famiglie delle vittime del massacro di trent’anni fa hanno guidato decine di stranieri lungo i vicoli di Shatila che ora esplode, priva di infrastrutture adeguate per una popolazione in continuo aumento. Non solo per la crescita demografica degli oltre 20mila residenti ma anche per l’arrivo, in questi ultimi mesi, di sfollati provenienti dalla Siria in guerra civile. «In gran parte sono palestinesi, cerchiamo di accoglierli nelle scuole, presso qualche famiglia ma il nostro campo non ha le possibilità di assorbirli», spiega una donna.
Sono profughi palestinesi in Siria che diventano profughi una seconda volta. Ci sono anche non pochi siriani. Gente senza averi, che ha perduto quel poco che aveva a casa nei combattimenti tra i ribelli e il regime di Bashar Assad. Si incontrano talvolta ai semafori di Ghobeiri e dei quartieri poveri di Beirut dove chiedono l’elemosina. Non frequentano certo i localini di tendenza di Hamra dove la sera, tra live music e discussioni accese, recitano la parte dei dissidenti in fuga dal tiranno molte decine di giovani siriani che in una sera spendono a Beirut quanto basterebbe per mantenere una famiglia in Siria per diversi giorni.
«In questo giorno della memoria per i martiri di trent’anni fa, guardiamo anche al futuro», dice Farshid Nourai di Assopace. «I palestinesi vivono a Shatila e in altri campi in Libano in condizioni disumane», spiega Nourai mentre il corteo comincia ad avanzare issando uno striscione che esorta «a non dimenticare». «Cerchiamo di trasformarein fatti il nostro parlare dei profughi palestinesi. A Shatila non è cambiato nulla, le cose peggiorano continuamente. Eppure negli anni passati si era parlato di finanziamenti e progetti, sino ad ora non abbiamo visto nulla. Per i profughi è un inferno», dice scuotendo la testa.
Nourai per conto della sua associazione segue a Shatila progetti in campo educativo e di installazione di pannelli solari, in collaborazione con Ingegneri senza Frontiere e i Children and Youth Centers palestinesi. Sembra accogliere l’esortazione di Nourai, il sindaco di Ghobeiri, Abu Said al Khansaa (del movimento sciita Hezbollah), che lancia una proposta. «So che tanti nel mio paese non approveranno – avverte – eppure io insisto affinchè ai profughi palestinesi siano date case nuove, una vita dignitosa e un lavoro fino quando non torneranno nella loro terra». Il sindaco però è altrettanto chiaro nel ribadire uno dei punti sul quale si fonda il fragilissimo consenso nazionale in Libano, dove domina il settarismo: «I palestinesi dovranno avere la casa ma non la cittadinanza».
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