by Sergio Segio | 11 Settembre 2012 7:28
La diga dell’Olanda europeista, aperta, tollerante, in una parola «spinoziana», questa volta dovrebbe reggere. Domani si vota e i sondaggi collocano in coda alle preferenze i due partiti anti Bruxelles. Sia chiaro: la democrazia olandese non è, e non è mai stata, in pericolo. Si trova, però, a fronteggiare l’insidioso e destabilizzante assedio di un doppio populismo. Il primo è guidato da Geert Wilders, 49 anni, leader del Partito della Libertà olandese. Stile e linguaggio aggressivo, posizioni mutuate dall’estremismo di destra, impastando xenofobia e protezionismo: ormai un classico in Europa. Il secondo è un fenomeno relativamente nuovo perché viene da sinistra, da un partito che si chiama socialista e che, anziché una rosa o magari un garofano, offre agli elettori un pomodoro da scagliare contro la grande finanza e l’establishment politico. Per diverse settimane nelle capitali più importanti e nelle istituzioni europee si è temuto che il socialista al sugo Emile Roemer, 50 anni, potesse diventare il dominus della politica olandese. A prima vista ci sono differenze visibili tra il protezionista Wilders, che vuole brutalmente buttare l’euro e tornare al fiorino, e il compagno Roemer che, invece, si prefigge «solo» di sforare il limite del deficit imposto dal Trattato di Maastricht e, soprattutto, di sconfessare il «fiscal compact», l’accordo europeo sulle regole di bilancio. È evidente che un’eventuale diserzione olandese metterebbe in crisi lo schieramento rigorista (Germania, Austria, Finlandia e appunto Olanda), indebolendo la già difficile manovra corale a sostegno dell’euro. Facile immaginare quale sarebbe la risposta dei mercati finanziari.
Ma secondo gli ultimi sondaggi, tutto questo non succederà . Non si dovrebbe ripetere il clamoroso risultato del referendum del giugno 2005, quando il 61,5% di «nee», affossò, insieme con il 54% di «non» della consultazione francese, la Costituzione Ue e, con essa, la stagione europea forse più ambiziosa del Dopoguerra. Quell’Olanda si presentò alle urne lacerata, confusa. Per la prima volta il placido «modello Polder» risultò inadeguato, addirittura ridicolizzato dalle asprezze di un conflitto sociale mai visto. Cacciati i nazisti, ristabilita la democrazia, l’Olanda costruì lo sviluppo economico sul cosiddetto «dialogo tripartito»: governo, industriali, sindacati, qualcosa di più della concertazione. Era lo sforzo comune di un Paese, unito esattamente come nell’opera di bonifica delle terre sommerse (i Polder appunto).
Ma l’equilibrio saltò, quando, a partire dagli anni Novanta, gli immigrati arrivarono a migliaia, insediandosi nei vecchi quartieri operai e popolari di Rotterdam e Amsterdam. Arabi, musulmani, soprattutto. Il regista Theo Van Gogh diede avvio a una campagna pubblica, con interventi sempre più provocatori, realizzando il cortometraggio Submission, dove alcuni versetti del Corano venivano riprodotti sulla schiena nuda della protagonista. Sul piano politico emerse la figura di Pim Fortuyn, un ex assistente di Sociologia, transitato per il Partito socialista, spumeggiante gay dichiarato. Non per niente il suo soprannome era «relnicht», la «regina urlante». Fortuyn è il padre del populismo olandese: nel marzo 2002 la sua lista ottenne il 36% dei voti nelle elezioni comunali di Rotterdam. A maggio, pochi giorni prima delle consultazioni nazionali nelle quali era il favorito fu assassinato da un militante dell’estrema sinistra. Van Gogh fu invece ucciso nel novembre 2004 da un giovane musulmano, figlio di immigrati marocchini. Per un certo periodo l’eredità politico-culturale di Fortuyn-Van Gogh venne raccolta da Ayaan Hirsi Ali, la sceneggiatrice di Submission. Poi, a poco a poco, il governo guidato dal democristiano Jan Peter Balkenende riuscì a riassorbire le spinte populiste.
Ora arriva la seconda ondata. Il posto della «relnicht» è occupato da Wilders, mentre la politica del rigore imposta dalla crisi dell’euro ha scavato uno spazio di radicalismo anche a sinistra. I partiti tradizionali, però, hanno reagito con forza. Il premier Mark Rutte, 45 anni, era stato costretto alle dimissioni nell’aprile scorso, dopo che Wilders aveva ritirato il fondamentale appoggio esterno all’esecutivo. Motivo? Rileggiamo le parole pronunciate allora da Wilders: «Noi non vogliamo che i nostri pensionati soffrano per amore dei dittatori di Bruxelles». L’Olanda è ancora uno dei quattro Paesi europei da tripla A per gli analisti finanziari. Ma sta pur sempre su questa terra e su questo continente: il tasso di disoccupazione ha raggiunto quota 6,5% (record degli ultimi sedici anni) e i conti pubblici sono appesantiti da un deficit pari al 4,5% del pil. La manovra di rientro vale 13 miliardi. Troppi per Wilders che ha fatto saltare il banco e che sembrava poter travolgere i liberali di Rutte, gettando nel cestino le prescrizioni di Bruxelles. Sull’altro versante i pomodori di Roemer sembravano ormai maturi per una spettacolare raccolta elettorale. E invece in Olanda, come in Europa, qualcosa è cambiato. Rutte, fedele alleato della Germania, sta beneficiando della svolta aperturista di Angela Merkel. Il partito laburista, invece, ha preso spunto dall’ascesa di Hollande. All’inizio dell’anno ha cambiato leadership, lanciando Diederik Samsom, 41 anni, abile con le parole, duro senza essere sprezzante con gli avversari, pragmatico con i possibili alleati. Negli ultimi dibattiti televisivi si è schierato senza riserve in difesa dell’euro, citando continuamente la linea Hollande, ma anche il piano anti-spread di Mario Draghi. Risultato: Samson è balzato in testa nei sondaggi, a pari merito con Rutte (33%). Gli analisti pensano che insieme formeranno un governo di coalizione (con i democristiani di Balkenende), escludendo i socialisti al pomodoro e gli xenofobi. Rutte, che oggi è il meno disponibile, potrebbe essere convinto con il posto da primo ministro. A quel punto l’Olanda ritornerebbe al centro dell’Europa, risolvendo, «spinozianamente», il teorema del doppio populismo.
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