La ricostruzione ferma quattro mesi dopo Nemmeno un euro agli sfollati

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MIRANDOLA (Modena) — C’è qualcosa di strano nella passeggiata lungo le viuzze del centro storico di Mirandola. Qualcosa di sinistro. Saranno le macerie e le crepe che si vedono ancora qua e là . Oppure saranno le transenne e i ponteggi piazzati ovunque a ricordare pericoli di crolli… Quando gli occhi planano su quel che resta del duomo tutto diventa più chiaro: è il silenzio, quel qualcosa di strano. Un silenzio irreale che fa risuonare il rumore dei passi nell’aria come fossimo in una stanza vuota. Visto dai piedi della Chiesa sventrata di San Francesco o dai mille portoni rinforzati con travi di legno, il cuore di Mirandola è un’enorme stanza vuota.
È uno dei problemi più gravi del dopo terremoto. La ricostruzione dei centri storici sfregiati dalle scosse del 20 e 29 maggio è il capitolo di un libro ancora tutto da scrivere e non c’è nemmeno un segnale che faccia sperare in un’accelerata. «Se andrà  bene, ma proprio tanto bene, forse potremo parlare al passato fra cinque anni» azzarda il direttore della Confindustria di Modena Giovanni Messori. Ed è fra i più ottimisti.
«Ricostruzione» per adesso è una parola grossa. Da Cavezzo a Concordia, da Medolla a Finale Emilia, da Camposanto a Cento, la necessità  del momento è dare una casa chi vive ancora nelle tende o nelle roulotte prima che arrivi l’inverno. Oppure pagare il promesso contributo per la sistemazione autonoma a chi si è organizzato per conto proprio e ha trovato casa in affitto o si fa ospitare da amici e parenti.
Il fatto è che nessuno ha avuto ancora un solo centesimo. «Io sono viva per miracolo e quindi mi ritengo fortunata» premette Renza Golinelli davanti alla sua casa di Camposanto che è una collezione di crepe. «Sono fortunata anche se alla bell’età  di 69 anni, da pensionata, ho cominciato a pagare un affitto di 400 euro più le spese. E ho dovuto pagare anche 300 euro per la recinzione di sicurezza. Nessuno mi ha dato ancora un soldo». Inutile spiegarle che l’ordinanza è stata emessa, che deve pazientare ancora un po’. «Io devo vivere e mangiare adesso» interviene la sua amica Annamaria, pensionata pure lei e alloggiata da amici «dopo venti giorni in una tenda che poteva anche andare, ma se lei avesse visto l’indecenza del bagno…».
Nelle tendopoli il freddo si fa già  sentire, soprattutto di notte. Nei dodici Comuni terremotati dell’Emilia ci sono ancora tendopoli aperte per 3.061 sfollati. Altri 88 sono ospiti in un residence e 1.467 vivono in alberghi. Le persone che aspettano il contributo per la sistemazione autonoma programmato dalla Protezione civile sono 39.327.
«Io sto qui dentro con mio marito, i miei due bambini e due cani» annuncia Anna Persino, bidella precaria, casa con danni gravi e marito con lavoro stagionale. Esce dal campo allestito a Rovereto sulla Secchia (frazione di Novi di Modena) perché l’ingresso è vietato ai giornalisti. «La mia famiglia è in una tenda da sola ma c’è gente che vive e dorme sotto quei tetti di tela con perfetti sconosciuti. Una cosa assurda. Chi ci aiuterà  se qui ci hanno tolto perfino la cucina? Dicono che non ci sono soldi e ci portano i piatti già  pronti che costano meno. I moduli dove dovremo vivere arriveranno a fine dicembre. E comincia a far freddo».
Il sindaco di Novi, Luisa Turci, capisce che «la gente ha ragione, i soldi non sono arrivati». E spiega che «noi siamo i primi ad essere arrabbiati. Ci sarebbe da chiedersi come mai la Protezione civile non ha dato denaro per finanziare le sistemazioni autonome. Lo sta anticipando la Regione… Capisco che nel comune sentire tutti pensino “se non mi danno nemmeno 500-600 euro come faccio a credere che arriveranno i soldi della ricostruzione?”».
Per quattro mesi la parola d’ordine è stata «arrangiarsi». Per tutti, commercio e aziende in testa. L’Emilia che produce l’uno e mezzo per cento del Pil, il polo biomedicale eccellenza di queste zone, il settore tessile, le imprese meccaniche. Tutti a lavorare come si poteva, sotto tensostrutture o in capannoni in prestito, stringendosi nelle fabbriche dei colleghi o emigrando qualche chilometro più in là  per rimettere in piedi la fabbrica. Adesso si fa spazio la rabbia, c’è un problema nuovo ogni giorno e cresce la sensazione di essere indietro su tutto. Troppo indietro.
I negozi, per esempio. Non sono ancora pronti (se non in forma improvvisata) i centri commerciali temporanei da mettere in piedi con i container. Né si è visto un euro nemmeno in questo caso. Le promesse parlano di 15 mila euro di risarcimento per chi dovrà  comprare un container e pagare gli oneri di urbanizzazione ma per ora i più se la cavano aprendo bottega in un garage, con una bancarella, magari in una cantina oppure online. «Stiamo lavorando con i soldi delle donazioni private» confessa Cristina Ferraguti, assessore alle Attività  produttive di Cavezzo. «E per non farci mancare niente abbiamo anche una questione legale che blocca lo sgombero delle macerie dalla piazza centrale». C’è anche questo, nel dopo terremoto: le lungaggini giudiziarie dove ci sono contenziosi aperti o nei luoghi sequestrati perché teatro di feriti e vittime. E poi, ultimo dei problemi in ordine di tempo, si è scoperto che buona parte dei tetti delle aziende danneggiate o crollate sono di Eternit. Dove, come e con quali finanziamenti smaltire quindi le fibre d’amianto cancerogene?
«Ci arrivano ogni giorno segnalazioni di persone che si sentono umiliate perché sono in difficoltà  e nessuno le considera» rivela Clarissa Martinelli di Radio Bruno, la più ascoltata dell’Emilia, diventata radio di servizio nei giorni dell’emergenza.
Quattro mesi passati a ricordare che «gli emiliani tengono botta, sempre e comunque» sarà  servito. Ma non è bastato e non basta.


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