La Polverini tentata dall’addio E va a parlare con Monti

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ROMA — Travolta dallo scandalo della Regione, accerchiata dalle critiche di Confindustria e della Chiesa, scaricata dall’Udc, isolata politicamente dalle dimissioni in blocco dei consiglieri di centrosinistra. La Polverini, ora, molla: «La situazione è insostenibile, non ce la faccio più. Mi sento accerchiata. Ora vado da Monti e glielo dico», si è sfogata ieri pomeriggio la governatrice. Poco prima era stata all’Auditorium, assieme al capo dello Stato Giorgio Napolitano. Unico momento di svago, nella sua giornata più drammatica, il pranzo al Majestic dallo chef Filippo La Mantia.
Il caso-Lazio, partito dallo scandalo di Franco Fiorito e dalla gestione quantomeno «allegra» dei conti pdl, le è sfuggito di mano. E, nel giro di un paio di giorni, da venerdì a ieri sera, alla presidente si è sgretolato il mondo intorno. Al congresso di Chirurgia, nella struttura progettata da Renzo Piano, Polverini incrocia Napolitano, poi chiede a Palazzo Chigi se il premier è disponibile ad incontrarla. Ottenuto il via libera, la governatrice lascia l’Auditorium passando dal garage e si presenta alla presidenza del consiglio. Il confronto dura una ventina di minuti, ufficialmente — riferiscono dal governo — per «una valutazione della situazione nel Lazio». Si sparge anche la voce di un comunicato, perché — fa sapere Palazzo Chigi — «spetta alla presidente riferire l’esito» dell’incontro. La nota arriva in tarda serata, quando la strada delle dimissioni imminenti sembra segnata: «Ho chiesto al presidente del consiglio, Mario Monti, un breve incontro per informarlo della situazione che si è verificata in Regione. Mi sembrava corretto farlo considerato che il Lazio è una realtà  certamente non marginale sotto il profilo economico e istituzionale del nostro Paese».
La verità  è attesa per oggi. Capisce, la Polverini, di essere in un vicolo cieco. Glielo dice anche Lorenzo Cesa, segretario dell’Udc, al telefono: «Vedi se riesci ad approvare qualche altro taglio e poi lascia». E senza Udc, addio maggioranza. Pier Ferdinando Casini parla di «disagio profondo degli elettori», ma riconosce «lo sforzo personale della governatrice nel far risparmiare 20 milioni al consiglio regionale». Sembra, però, la resa delle armi. Chianciano, quando Renata era intervenuta alla festa Udc, è lontana. Lo dice anche Casini: «Lei nel nostro partito? È falso». I vertici centristi vorrebbero le dimissioni dei consiglieri regionali, che resistono. Staccare la spina? «Ne parleremo con gli amici laziali, pensando agli elettori e all’Italia che vogliamo costruire», twitta Casini.
La Regione è in bilico, come non mai. La governatrice, dopo il colloquio con Monti, riunisce i capigruppo di maggioranza: «Siamo orgogliosamente al fianco di una presidente onesta e determinata, incitandola a proseguire nell’incisiva azione di governo fin qui svolta». Durante la riunione telefona Silvio Berlusconi: l’ha fermata una volta e ora ci riprova. La Polverini alza la posta: ora vuole che lasci il presidente del consiglio Mario Abbruzzese. I 14 consiglieri Pd si riuniscono col coordinatore regionale Enrico Gasbarra e ne raccolgono l’invito, firmando le lettere «contestuali» di dimissioni: diventano operative se si raggiunge la maggioranza assoluta. «Lavoriamo per il ritorno al voto», dice il segretario. Come loro, pronti a lasciare anche Idv, Sel, Verdi, Federazione della sinistra, Lista civica. Secondo Esterino Montino cede anche l’Mpa: ma il loro esponente è uno dei firmatari del comunicato pro-Polverini. Non basta ancora a far decadere il consiglio (servono 36 firme), ma il messaggio politico è molto forte.
Il Pdl è alla finestra. Qualcuno, come Fabrizio Cicchitto è incredulo: dell’incontro Polverini-Monti nessuno sapeva nulla. Angelino Alfano, fino all’ultimo, respinge l’idea delle dimissioni. Gli altri leader si tengono in disparte. Parla solo Gianni Alemanno, per chiedere «un azzeramento totale del centrodestra», frase che non è piaciuta alla Polverini. Sandro Bondi non è d’accordo col sindaco: «No a facili protagonisti». A terra, dopo il caso Fiorito, restano macerie.
Ernesto Menicucci


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