La nuova scommessa di Marchionne e la tentazione dei sussidi
La nota positiva uscita dall’incontro di ieri tra la Fiat e il governo è l’impegno a costituire un gruppo di lavoro misto presso il ministero per lo Sviluppo economico con l’obiettivo di rafforzare le strategie di esportazione nel settore dell’automotive. Il mercato di sbocco dovrebbe essere l’America dove la capacità produttiva della Chrysler sarebbe quasi saturata.
L’incontro di ieri tra la Fiat e il governo ha avuto un pregio: è durato a lungo. Vuol dire che ciascuno ha detto e spiegato la sua. La seconda nota positiva è l’impegno a costituire un gruppo di lavoro misto presso il ministero per lo Sviluppo economico per rafforzare le strategie di esportazione nel settore dell’automotive. Le indiscrezioni dicono che il mercato di sbocco salvifico dovrebbe essere l’America dove la capacità produttiva della Chrysler sarebbe quasi saturata. Ma qui si fermano le note positive. Che all’orecchio degli oltre ventimila dipendenti della Fiat Auto in Italia e degli 80 mila dell’indotto suonano ancor più generiche e vaghe dei discorsi dei partiti politici sulle riforma elettorale.
Il comunicato congiunto governo-Fiat, che in questi casi è ciò che vale perché impegna i firmatari, non prende alcun impegno. Il progetto Fabbrica Italia non viene più menzionato. Nemmeno per celebrarne le esequie, visto che era stato annunciato in pompa magna nell’aprile del 2010 proprio a palazzo Chigi, con Silvio Berlusconi in sella. Ma nell’era di Facebook, dove ogni informazione si consuma in una chiacchiera in diretta, la memoria è un lusso per pochi o un approccio troppo pedante al reale. La nota non spiega se ci sarà una deroga alle norme sulla cassa integrazione così da poter offrire copertura ai dipendenti se il lavoro continuerà a mancare come ormai appare, purtroppo, molto probabile. Ma se ci fosse, bisognerebbe poi spiegare all’Italia come si giustifichi la deroga rispetto alla riforma del mercato del lavoro firmata dal ministro Fornero. Certo, l’idea di due Italie, una protetta da eventuali accordi Fiat e un’altra allo sbaraglio, non andrebbe bene. Ma sarebbe un problema della gente Fiat o farebbe emergere un limite della riforma? In ogni caso, la nota congiunta prende atto dell’orientamento dell’azienda a investire in Italia al momento idoneo. Il che può essere un’ovvietà (quando mai si investe nel momento sbagliato) oppure un avvertimento (adesso non si investe altrimenti sarebbero tutti felici di dire che il momento idoneo è questo). L’azienda dichiara anche una cifra, 5 miliardi, per quantificare gli investimenti fatti nel nostro Paese negli ultimi tre anni. Certi numeri ricordano i 20 miliardi di Fabbrica Italia che non si sono mai visti.
Ora, le Fiat sono due: la Fiat Industrial, che fa camion e trattori, e la Fiat Spa, che fa le automobili. Quei 5 miliardi come si suddividono tra le due? Quanto è investimento vero, quanti sono costi capitalizzati e quanto è spesa per ricerca e sviluppo? Ma se anche fosse, 5 miliardi in tre anni equivalgono a 8 e mezzo in cinque anni. Non avevamo detto che erano 20 nel quinquennio? Non facciamo questi conteggi per spirito polemico. Ma perché dobbiamo tutti essere credibili in momenti come questi. I numeroni possono essere spacciati nei talk show televisivi, ma troppo spesso la realtà è un’altra. Ed è dolorosa.
Con il governo di che cosa si parla? La Fiat ha escluso che esista un’offerta Volkswagen per l’Alfa Romeo e uno stabilimento. Questo filtra. Ma è la Fiat, parte in causa, che deve dirlo o è il governo che, con i suoi strumenti, deve accertare alla fonte come stanno le cose? Non bisogna essere dei germanisti per capire che a Wolfsburg si attendono un approccio che tenga conto di che cosa sono oggi la Volkswagen, la Fiat e l’Alfa. In altre parole, per Marchionne non è come quando trattava, con coraggio e intelligenza, la Chrysler con Obama.
Il caso Fiat sta mettendo a dura prova la premiership di Monti. Il contrasto sullo spread va bene, i licenziamenti a macchia di leopardo fanno soffrire, ma si vedono poco. La Fiat, invece, fa rumore. Sia perché la Fiat era stata presentata come l’alfiere della modernità quando invece è un gruppo in crisi e gli alfieri della modernità sono le multinazionali tascabili del Quarto Capitalismo, sia perché a rischio è ormai un intero, storico settore industriale come quello dell’auto.
La risposta dell’amministratore delegato, Sergio Marchionne, al ministro Corrado Passera deve far pensare. Se la Fiat va bene in Brasile perché là riceve cospicui aiuti di Stato e non può andar bene in Italia e in Europa perché questi aiuti sono proibiti dalle regole antitrust, dovremmo tutti aprire una riflessione.
Marchionne è un realista. Probabilmente lo è troppo. E, come tutti quelli che peccano di eccesso di realismo, rischia di risparmiare qualcosa oggi e di perdere molto domani. O forse sta duramente trattando, da quel grande scommettitore che è, una nuova tornata di sussidi da parte del governo. Certo è che si fatica a capire come possa essere possibile esportare 3-400 mila auto negli Usa per salvare le nostre fabbriche quando l’Italia è già oggi importatrice netta di marchi Fiat.
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