by Sergio Segio | 1 Settembre 2012 6:10
Il palazzo di Cnosso, il labirinto delle sue stanze e dei suoi magazzini, il Minotauro, sono simboli di un potere arcaico, certo paternalistico (osserva Carlo Galli nella voce “Palazzo” di questo Abbiccì della cronaca politica che esce per il Mulino), ma palesemente lontano e inaccessibile. Adesso il potere si presenta piuttosto come un panopticon capovolto, in una trasparenza forse anche più ingannevole, in cui può sorgere l’illusione che gli arcana imperii siano alla luce del sole, mentre lo sono soltanto i comportamenti individuali di una politica spettacolarizzata e screditata. Scritte sul filo di questa attualità , per il Diario di Repubblica, le 40 voci di Galli, da “Anarchia” a “Tiranno”, non risentono aneddoticamente delle circostanze in cui sono state composte. Esse valgono dunque anche nel momento in cui la scena pubblica presenta nuovi personaggi e interpreti, e un nuovo stile, che di Galli condivide la pacatezza accademica. Valgono perché, come specifica lui stesso nella premessa al libro, lo scopo è quello di «mostrare in quali modi la politica sia presente nella lingua, alta e bassa, nell’istituzionalità più aulica e più logora ma anche nel lessico quotidiano che – a volte consapevole ma più spesso ignaro – nasconde in sé rimandi a questioni di lungo periodo, a temi politici consolidati». Per presentarle al lettore, provo a ridurre le 40 voci a quattro temi fondamentali. Il primo riguarda la politica, che Galli considera non una scienza, ma un’arte, che consiste in una complicazione di “ragione, persuasione, forza, interesse, immaginazione, diritto”. Da quando ho memoria ricordo dibattiti sulla crisi della politica e la fine delle ideologie, ma ovviamente la realtà è diametralmente opposta. La politica si è complicata nel momento in cui il potere si articola, si ramifica secondo le leggi di una microfisica, ed è così diffusa da risultare ingovernabile persino per l’ultima superpotenza residua. Lo stesso vale per la crisi delle ideologie e per il riflusso, che ha inaugurato l’epoca più ideologica della storia, dalla lotta contro l’impero del male alle riscoperte delle padanie e al ritorno dei fondamentalismi, il tutto attraverso un circuito mediatico che è stato essenzialmente un dispiegamento politico-ideologico. Sgombriamo dunque il campo dall’idea di trovarci in un mondo “post-politico”. Il secondo insegnamento riguarda la dialettica. Fra le tante privatizzazioni imposte dalla spending review trascendentale che impegna gli Stati, negli ultimi decenni spicca la privatizzazione della politica, divisa tra leader carismatici e società civile (che il più delle volte, osserva Galli, significa pianamente “economia”). La politica postmoderna ha introiettato l’agonalità , il rifiuto delle mediazioni, della politica sessantottesca, dando fiato all’anomia delle individualità che esaspera il conflitto. Il rifiuto e il discredito della forma partitica si è trasformato in un rifiuto della dialettica come arte della mediazione, nella costruzione sistematica del nemico, nella concezione della politica come guerra, e nella decisione di “non fare prigionieri”. Sono trasformazioni di cui la mia generazione è stata testimone oculare, e in cui davvero il terrorismo sembra avere conseguito almeno un obiettivo, nel colpire il cuore dello Stato: portare al diapason della dialettica amico/nemico lo scontro politico. I talk show dell’ultimo decennio, almeno, sono stati la prova di questa metamorfosi. Il terzo insegnamento riguarda la sinistra, che nell’arco di un quarantennio ha visto, in successione, la propria affermazione culturale sull’onda della ribellione giovanile, e poi il crollo del socialismo reale. In questa trasformazione, l’effetto più significativo è che stili comunicativi di sinistra (vincenti sotto il profilo culturale) hanno veicolato contenuti di destra (vincenti sotto il profilo politico), e come risultato si è avuto il fenomeno del neoconservatorismo, egregiamente analizzato da Galli. Il fenomeno non è nuovo. Dopo la catastrofe di Napoleone, de Maistre ha saputo usare la lingua di Voltaire per riaffermare la legittimità di trono e altare, e la necessità di una “dolce catena” che stringesse gli uomini distogliendoli dagli eccessi della libertà . Il conservatorismo non ha pagato dazio perché, sino alla crisi economica attuale, non ha avuto sconfitte paragonabili a quelle della sinistra ed è così che, con uno stile sessantottesco, è stato rilanciato tutto il vecchio armamentario della destra, da Dio alla Patria all’eroismo, con un fenomeno che ha inizio con i Nouveaux Philosophes trent’anni fa e che si ripropone per esempio in certe dichiarazioni di Zizek, che si è dichiarato personalmente favorevole alla pena capitale. L’ultimo insegnamento, e qui, lo riconosco, parlo pro domo mea ma con forti pezze d’appoggio nelle voci di Galli, riguarda il realismo. Per qualche sortilegio, la sinistra ha pensato che il realismo fosse intrinsecamente di destra (con la confusione del realismo con il cinismo analizzata nella voce “Realpolitik”), e quasi apolitico. Non così la vede Galli, che propone appunto di pensare la natura duplicemente politica del realismo, giacché il politico non solo deve fare i conti con la realtà , ma deve essere anche consapevole di costruire una realtà sociale attraverso la propria azione. Così nella voce “Tecnica”, dove risulta che la politica è in quanto tale più forte degli apparati tecnici, dunque non può giustificarsi, come spesso è avvenuto, con lo strapotere dei “dispositivi” che annullerebbero il ruolo della decisione. In questo quadro (leggiamo alla voce “Sinistra”), nel momento in cui la destra si è accaparrata il territorio del mito, alla sinistra spetta un duplice compito: quello di farsi parte in causa e insieme garante del quadro generale della politica. Un compito che non può essere assolto senza guardare in faccia la realtà e la sua natura ruvida, resistente, e che ama contraddirci.
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