La «decrescita» è in atto Si chiama povertà 

by Sergio Segio | 20 Settembre 2012 7:51

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Keynes apprezzava quel passaggio di John Stuart Mill, economista e riformatore liberale nell’Inghilterra dell”800, secondo cui non è desiderabile un mondo che assoggettasse tutti gli spazi alla produzione, facendo scomparire quei luoghi appartati di natura incontaminata, che soli permettono solitudine e bellezza. Keynes vi pensava quando auspicava una crescita zero, ritenendo che la dotazione di mezzi di produzione fosse, già  allora, sufficiente a garantire una vita decente per tutti. Ma si preoccupava che questa potenziale abbondanza non fosse funestata dalla miseria della disoccupazione. Doveva lottare contro i lungoperiodisti dell’epoca che si preoccupavano, anche loro, dell’inflazione futura e non della miseria presente. Mentre Keynes, contro i Monti d’allora, si ingegnava di far ripartire il motore d’avviamento di una macchina ferma, non di aggiustarne la carrozzeria. Si trattava e si tratta di un’emergenza da affrontare con mezzi di emergenza, poi il futuro. E in questo caso il primo tempo è l’opposto dell’austerità .
La nostra situazione ha alcuni importanti punti di contatto con quella di Keynes. La crisi esplosa tra il 2007 e il 2008 è l’unica che, per globalità  sistemica, può essere paragonata a quella del 1929. Ma allora se ne uscì, quantomeno negli Usa di Roosevelt e del Wagner Act, sostenendo la domanda con la spesa pubblica e con un aumento del potere contrattuale dei lavoratori. Stavolta, invece, dopo aver frenato con stimoli limitati – solo Usa e Cina – una caduta di reddito e occupazione più rapida di quella post-29, la strategia lungoperiodista di destra vorrebbe cancellare sia lo stato sociale che i diritti dei lavoratori. I lungoperiodisti di sinistra si preoccupano che la crescita prema sulle risorse naturali mondiali. Anche la destra condivide questa preoccupazione. Infatti, ha già  deciso che debbano «crescere» oggi solo Sudamerica e Asia, poi l’Africa; e «decrescere» i paesi di più antica industrializzazione, o meglio, le condizioni di vita in quei paesi. Il risultato non potrà  essere la «decrescita felice» dei lungoperiodisti di sinistra, ma l’immiserimento, perché il processo è strettamente in mano alla destra. Se si vuole strapparle il controllo, bisogna allearsi con grandi masse cui non si può offrire la miseria, bensì quantomeno il mantenimento – anche se rivisitato e depurato da sprechi – del benessere raggiunto.
Ha sicuramente senso pensare a un mondo futuro non più ossessionato dall’accumulazione. Ma ciò non autorizza il disprezzo verso epoche passate, la cui crescita ci permette di poter pensare a un futuro diverso. Mario Cuomo, governatore dello Stato di New York, diceva: «io sono un figlio delle politiche rooseveltiane, solo grazie a quelle sono qui». Bisognerebbe ricordare, inoltre, che solo il trentennio d’oro – e le lotte sociali del periodo – insieme trasformarono un’Italia povera in un paese con un benessere diffuso. Grazie a questo anche chi non era figlio, o nipote, di magnanimi e prosperi lombi ha potuto accedere a possibilità  prima precluse: vita quotidiana decente, istruzione, e poi magari pubblicistica, ecc. Combattere il capitalismo è un conto, ma disprezzare l’unico periodo – quello keynesiano – in cui fu costretto a dividere maggiormente i frutti con i lavoratori, è insensato. Il futuro è certo nero; ma ciò non autorizza a sputare su un passato grazie a cui possiamo ancora quantomeno sopravvivere. E questo vale non solo per Renzi.

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