La faccia tosta di Renata sui manifesti dell’impunità 

by Sergio Segio | 28 Settembre 2012 7:45

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I MANIFESTI con cui la governatrice del Lazio ha tappezzato i muri di Roma seguono infatti quello stesso copione, che non è dettato dal suo comico di fiducia, ma dall’idea, con il sapore di modernità  rimasticata, che la forza della pubblicità  sono i paradossi e che dunque la politologia è ormai paradossologia. La Polverini ci ha creduto così tanto che, dismessa a furor di popolo perché insozzata da ogni genere di sporcizia politica e penale, ha tappezzato i muri di Roma, presumibilmente con i soldi pubblici e certamente anche negli spazi vietati alle affissioni, con la propria immagine, un bel primo piano del suo faccione di massaia pulitrice, una specie di Mastro Lindo della moralità : «Questa gente la mando a casa io».
E il paradosso è stato ‘premiato’ nientemeno che dalla Ryanair, la compagnia aerea low cost, che si è appropriata di quella rotonda faccia tosta, una Polverini in guanti di gomma, con straccio e secchio, che promette di tagliare le spese che ha coperto, bloccare gli sprechi che ha promosso e su cui ha lucrato, far brillare la casa di vetro che ha oscurato, risanare ciò che ha guastato: «Ora basta — è lo slogan della compagnia irlandese — volate con Ryanair perché costa di meno».
La Ryanair, che in tutto il mondo si promuove grazie al sapiente uso della deriva trash, ha colto nella Polverini più che una personalità  un feticcio, il totem della sfrontatezza, la maschera spudorata che il popolino di Roma definisce «una faccia come il …» , perfetta non per l’ironia ma per il sarcasmo, per il darsi di gomito, per lo sghignazzo. I manifesti della Polverini fanno infatti pensare alla ramazza che sparge immondizia; allo strofinaccio che, ad ogni passata, spalma fanghiglia; al secchio pieno di acqua sudicia.
Ma la Ryanair ha capito che non c’è nulla di più trash dell’impunità  che è un’altra categoria romanesca, roba da Belli e Trilussa che certamente avrebbero cantato in versi sia la Polverini sia i suoi tre fedelissimi moschettieri che la seguono e la ispirano sin dai tempi dell’Ugl e a suo nome hanno gestito fondi enormi e governato ogni genere di clientele: Stefano Cetica, il potentissimo assessore al Bilancio, Salvatore Ronghi, il segretario generale della Regione responsabile della lista, e infine l’iracondo capo di gabinetto Pietro Giovanni Zoroddu che lunedì sera ha tentato di picchiare giornalisti e fotografi.
Loro tre hanno inventato, per lei e con lei, questa campagna- paradosso, che non è solo infantile ma coltiva l’idea di sfruttare la generica retorica della pulizia che in questa vicenda romana ha mostrato purtroppo la sua povertà  e i suoi guasti. Tutti infatti nel consiglio regionale del Lazio invocano la pulizia e tutti sfregiano e oltraggiano «i veri colpevoli ». Anche Fiorito grida che i ladri sono gli altri e che lui aiuterà  i giudici e la politica «a fare pulizia». E pure le opposizioni negano di avere a loro volta taciuto e lucrato e anzi il Pd replica sui muri con i propri manifesti, anche questi con i soldi pubblici e anche questi negli spazi non consentiti: «Polverini a casa…». E dunque anche la Polverini, perché no?, fa la vittima e al tempo stesso la ribelle. In questa storia i più colpevoli sono quelli che più gridano ‘al ladro al ladro’, un po’ come in certi funerali dei romanzi gialli dove la più appariscente corona di fiori è quella dell’assassino, e dove il bacio più rumoroso è quello del man-
dante, con il risultato finale che fiori e baci sono tutti e sempre sospetti. Che fare se «facciamo pulizia» diventa lo slogan di chi ha sporcato, e se anche l’onestà  diventa la retorica dei disonesti?
Ecco perché questi manifesti non sono soltanto comici e la Polverini non riesce a suscitare la pietas che sempre meritano gli sconfitti. Non ha scelto infatti di andarsene in campagna. Dopo un così grave fallimento, lei rilancia. Dopo avere gettato via la dignità  del suo mondo d’origine, proclama di essere la sola per bene in quel consiglio indegno, di essere addirittura la ramazza della politica laziale e di venire perseguitata in quanto buon politico, «perché siamo noi che abbiamo tagliato i fondi ai santuari della sanità  privata».
Ed è stato imbarazzante vederla a Ballarò mentre, al di la della vergogna, fingeva di fare buon viso al terribile gioco di rieducazione di Crozza: «sei venuta qui a Ballarò che eri nessuno, e ora che torni sei di nuovo nessuno », «scusa se non ho indossato il mio vestito da maiale», sino al «Polverini ma che minchia sai?» che fa entrare il dialetto siciliano nella lingua italiana attraverso la porta della comicità , con una parola che in quel contesto suona lieve e non solo perché l’altra, con quelle due zeta, è sempre un’esplosione di durezza e di trivialità . Il punto è che la volgarità  stava tutta concentrata nell’enormità  e nell’oscenità  dello scandalo e dell’abuso di danaro pubblico e in quel viso falsamente e spudoratamente ingenuo, lo stesso che ora occhieggia sui muri di Roma con i suoi slogan surrealisti: ora faccio pulizia, ora li caccio via io… Ecco: è come le signorine “per male” di una volta che si rifacevano… il trucco.

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