La apartheid non è morta

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Prima, il 16 agosto sembrava di essere tornati indietro di 20-30 anni, ai tempi dell’apartheid e del «white power», con la polizia a sparare a man salva contro i minatori in sciopero davanti alla miniera della Lonmin, proprietà  inglese, terzo produttore di platino al mondo, a Marikana, nel veld a un centinaio di km da Johannesburg: 34 minatori uccisi, 75 feriti, 270 arrestati. Adesso, due settimane dopo, la conferma che effettivante siamo tornati (tornati?) indietro di 20-30 anni, ai tempi dell’apartheid e del potere bianco, con la pubblica accusa (NPA, National Prosecuting Authority) che ha incriminato i 270 minatori arrestati dell’omicidio dei 35 loro compagni uccisi dalla polizia. Sulla base di una legge propria dell’era dell’apartheid, la dottrina del common purpose che consente di incriminare tutti coloro presenti sul teatro di un fatto delittuoso solo per il fatto di essere… presenti. I 270 erano parte del gruppo di minatori in sciopero «le cui azioni hanno costretto la polizia a sparare», per «difendersi» in quanto (versione ufficile) gli scioperanti avanzavano armati di lance, mazze e machete. Anche se l’autopsia dei cadaveri e le ferite dei sopravissuti mostrano che quasi tutti sono stati colpiti alla schiena. «Shock, panico e confusione», la reazione del ministro della giustizia, Jeff Radebe, nero, che ha chiesto «un rapporto» all’ufficio della pubblica accusa, reclamando per sé «la responsabilità  finale». Condanna, indignazione, rabbia generalizzate. «Una follia»; «un abuso flagrante del sistema giudiziario»; «osoleta e infame» la dottrina del common purpose. Che, inevitabile citazione, fu applicata nel 1989 da un giudice bianco che condannò a morte 14 neri «presenti» sul luogo in cui era stato ucciso un poliziotto nero pur riconoscendo che personalmente non c’entravano. Le protesta intorno al mondo contro il sistema di apartheid costrinse la giustizia sudafricana a rivedere il verdetto. Probabilmente anche questa volta l’accusa di omicidio contro i 270 minatori arrestati, cadrà . Ma non per questo è meno triste e significativo che 18 anni dopo la fine dell’apartheid la dottrina razzista e classista del common purpose sia ancora vigente nel sistema giudiziario della «Rainbow Nation» che sognava Nelson Mandela. E che ci sia ancora qualche giudice che la vuole applicare, dopo un massacro come quello del 16 agosto a seguito del quale non c’è stato un poliziotto che sia stato incriminato, un politico che si sia dimesso. Né Zuma, né il ministro delle miniere o della giustizia, né il capo della polizia, né l’amministratore delegato della Lonmin, Ian Farmer (che l’anno scorso ha arraffato uno stipendio da 16 milioni di rand, 1.5 milioni di euro). Zuma ha messo in piedi una «commissione giudiziaria d’inchiesta», è in corso una «revisione interna» della polizia ma è tutta roba che richiederà  mesi. Per ora restano solo i 34 morti ammazzati e l’accusa di omicidio per i 270 arrestati (mentre la miniera, nonostante i ricatti della proprietà , non ha ancora ripreso appieno l’attività ). Pazzesco? Forse. Ma forse è anche peggio. Perché, come dice William Gumede, docente all’università  del Witwatersrand, il caso di Marikana è – o può essere – un «turning point» nella storia del Sudafrica post-apartheid, nato 18 anni fa, il 27 aprile 1994, giorno delle prime elezioni a-razziali nella storia del paese e della nascita della Rainbow Nation. Quest’anno quella prima generazione di bambini «born free» sono diventati ufficialmente maggiorenni e potranno votare per la prima volta. Ma il paese che si ritrovano davanti agli occhi i «nati liberi» più che i colori dell’arcobaleno ha i colori oscuri di un incubo fatto (ancora) di esclusione, di miseria, di rabbia, di povertà , di ineguaglianze. Secondo il South African Institute of Race Relations, il reddito personale procapite dei sudafricani bianchi (meno del 10% del totale) è 8 volte superiore di quello dei sudafricani neri. L’anno scorso il Sudafrica ha superato il Brasile come la società  più diseguale del mondo, nella quale il gap fra i più ricchi e i più poveri è il più alto in assoluto, e la distribuzione della ricchezza non è molto cambiata dalla fine dell’apartheid. Il tutto ancora, come sempre, legato al colore della pelle. La nuova generazione dei diciottenni «born free» si ritrova davanti un paese in cui a dominare sono disoccupazione, diseguaglianze e povertà . Tre piaghe che il black economic empowerment, l’azione affermativa in favore dell’ascesa economica dei neri, non ha fatto nulla per curare, anzi il contrario. Il risultato è una piccola élite nera, generalmente uscita dalle fila dell’Anc e del sindacato suo alleato nella lotta di liberazione (il Cosatu, il Num) divenuta favolosamente ricca attraverso la cooptazione nelle vecchie compagnie bianche, gli appalti governativi, i posti nel settore pubblico e nei consigli di amministrazione. Di cui sono tristi simboli il capo della Camera delle miniere Bheki Sibya o quel Cyril Ramaphosa, il carismatico ex leader del sindacato dei minatori – Num – che ora, come «business tycoon», siede nel consiglio di amministrazione della Lonmin, la compagnia mineraria inglese che rifiuta gli aumenti salariali ai minatori per salvaguardare i suoi profitti astronomici e mantenere gli «schiavi neri» nella loro condizione di sempre. Tutti però devono fare attenzione perché il «miracolo» Sudafrica, con la sua «riconciliazione» (riuscita o fallita?) può rovesciarsi in una realtà  drammatica. Ripete il carismatico vescovo Jo Seoka, presidente del South African Council of Chuches, che i minatori di Marikana gli hanno giurato che «questo è stato solo l’inizio».


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