India: le dighe che sommergono il popolo Adivasi

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“La valle del fiume Narmada – ci ha spiegato il Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali(Cdca) – è abitata da 25 milioni di persone, e dalla metà  degli anni ’80 è teatro di un forte conflitto che vede la popolazione opporsi duramente alla costruzione, finanziata dai Governi del Madhya Pradesh, Maharashtra e Gujarat con numerosi sponsor privati, di un enorme sistema di dighe, tre delle quali particolarmente imponenti: la Sardar Sarovar, la Narmada e la Maheshwar”. L’immenso progetto aveva inizialmente come finanziatore principale la Banca Mondiale, ritiratasi dall’impegno nel 1993 all’indomani delle numerose proteste ambientaliste. Ma nonostante non sia stato difficile per il Governo indiano trovare altri partner privati che investissero nel progetto, ad oggi molti sponsor come le società  tedesche Siemens, Bayernwerk e VEW, poi seguite dalla Pacgen, ne sono usciti a causa dei limiti progettuali portati alla luce dagli esperti del Ministero dello Sviluppo tedesco.

Come mai? Se l’intero mega-progetto dovrebbe contribuire al fabbisogno energetico delle regioni coinvolte e assicurare l’approvvigionamento acqua potabile per le popolazioni delle zone rurali, come spesso accade, ai lodevoli annunci segue una realtà  ben diversa, sia per i cittadini, che per l’ambiente. La diga Sardar Darovar, con un’altezza proposta di 138 metri, è il progetto più controverso. Il governo sostiene che questa irrigherebbe più di 1,8 milioni di ettari ed estinguerebbe la sete nelle zone più inclini alla siccità  di Kutch e di Saurashtra nel Gujarat, generando una capacità  elettrica di 1.450 Mw. Sono innumerevoli, però, i disagi ambientali, sociali e culturali implicati nel progetto, soprattutto per il popolo degli Adivasi.

Per il Cdca migliaia di ettari di terreno fertile sono stati allagati e altri ne saranno in futuro “compromettendo la biodiversità  animale e vegetale delle regioni interessate e alimentando l’aumento dell’umidità  e delle piogge. Inoltre la decomposizione delle specie vegetali causerà  un incremento sproporzionato di emissioni nell’aria di metano e CO2. Infine, in un Paese dove l’emergenza alimentare è complementare a quella sanitaria, la realizzazione del progetto comunque impedirà  di continuare a sfruttare dei buoni terreni agricoli, dove si arriva a compiere l’elevata media di tre raccolti annui” e dove molti piccoli contadini producono cotone biologico che viene coltivato e filato nell’ambito di un progetto conosciuto in Italia perché commercializzato dalla LegaCoop.

La popolazione, raccolta nel Narmada Bachao Andolan (Movimento per Salvare il Narmada) e sostenuta da una rete internazionale di ambientalisti, si è opposta duramente al progetto soprattutto attraverso un prolungato sciopero della fame. Dal settembre 2012 l’estrema forma di protesta di matrice gandhiana del popolo indiano Adivasi, che occupa alcune delle zone interessate dal progetto, è cambiata. Si chiama “jal satyagraha“ e consiste nel portare alcuni manifestanti a restare pacificamente immersi fino alla testa nelle proprie terre allagate dall’innalzamento dell’acqua del fiume Narmada, che è salito ben al di sopra di quanto previsto all’inizio dei lavori.

Non cederemo, piuttosto annegheremo” è lo slogan principale del movimento di resistenza Narmada Bachao Andolan e così, da più due settimane, centinaia di potenziali sfollati sono a mollo, rischiando la vita nei terreni allagati. “È stata inviata una lettera al governatore della regione per esortarlo a far abbassare il livello dell’acqua nei villaggi locali – si legge nei primi report resi pubblici dalla rete internazionale Friends of River Narmada – e i manifestanti chiedono di veder tutelati i propri diritti di fronte agli interventi idroelettrici delle imprese coinvolte, che violando le decisioni dell’Alta Corte e della Suprema Corte indiana, hanno volutamente innalzato il livello dell’acqua all’interno dei bacini formati dalle dighe, sommergendo terre e case delle popolazioni locali”. Come se non bastasse, nonostante il Narmada Water Dispute Tribunal abbia stabilito che tutte le persone soggette ad un re-insediamento forzato debbano ricevere delle nuove terre almeno un anno prima dell’allagamento, ad oggi il Governo locale finge di non accorgersi del problema pur essendo uno dei finanziatori del progetto.

“I diritti ancestrali del possesso della terra degli Adivasi non sono nemmeno stati considerati e chi è stato compensato con altra terra si è visto assegnare terreni non coltivabili, pieni di sassi”. Molte comunità  sono state separate e distribuite in più villaggi, “ma per gli Adivasi – ha ricordato il Cdca – la deportazione significa anche la perdita delle tombe degli antenati, parte integrante della propria cultura, assieme al sapere tradizionale e alle loro abitudini di vita”. Ma non si tratta solo della storia, della cultura e dalla vita degli Adivasi. Se il progetto proseguirà  con queste caratteristiche saranno allagati anche i siti archeologici e le testimonianze che documentano la continuità  di insediamenti umani lungo il fiume Narmada dal Paleolitico fino ad oggi.

A rischio nella valle del Narmada c’è la vita e la storia di un popolo. Anche per questo dal 1992 Amnesty International esprime la sua preoccupazione in quanto, come nel caso di precedenti progetti idroelettrici nella valle della Narmada, ad esempio il progetto del Bargi, la superficie inondata è stata largamente sottovalutata al pari dei diritti di questo popolo minacciato dall’acqua e dagli interessi economici.


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 Caro direttore, vivo giorni di profonda frustrazione e rabbia. Insegno in una scuola secondaria superiore dal 1976; al 31 agosto 2012 avrò pertanto un’anzianità  effettiva di servizio di 36 anni, 8 mesi e 3 giorni. Ora, a tre anni dall’uscita, mi vedo fortemente penalizzato rispetto ai miei colleghi già  in pensione da tutta una serie di provvedimenti.

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