by Sergio Segio | 3 Settembre 2012 6:21
TARANTO — Il primo a lanciare la pietra era stato il presidente dell’Arpa pugliese, Giorgio Assennato. «L’Ilva — aveva detto — non si è mai voluta sedere a un tavolo con noi. Sono rimasti sull’Aventino e hanno continuato a fare ricorsi su ricorsi al Tar di Lecce, sempre vinti… Sono sicuro che anche la Procura di Taranto perderebbe se fosse il Tar di Lecce a decidere sui suoi atti». Subito dopo erano intervenute le associazioni ambientaliste, segnalando come in questi anni molte decisioni di natura sanitaria prese da Comune e Asl fossero state sempre cassate dal Tar. Ora il caso arriverà davanti al Consiglio superiore della Magistratura. Perché? Il presidente del Tar di Lecce, Antonio Cavallari, è il cognato (hanno sposato due sorelle), di uno degli avvocati esterni dell’Ilva, Enrico Claudio Schiavone. «Una situazione — spiegano dal direttivo nazionale di Legambiente — che secondo noi è doveroso segnalare al Csm perché il Consiglio valuti eventuali situazioni di incompatibilità o anche soltanto di opportunità . La situazione è così delicata, che richiede il massimo della trasparenza a tutti i livelli. Anche quello della magistratura amministrativa».
I due protagonisti però rimandano al mittente tutte le accuse. «Da un punto di vista tecnico, non siamo nemmeno affini. E soprattutto l’avvocato Schiavone non difende l’Ilva davanti al Tar». Schiavone è infatti un lavorista, è lui a difendere il siderurgico (in qualità di consulente esterno) nella maggior parte delle cause contro i lavoratori: «Questo della parentela — dice — è un dettaglio insignificante». Il Tar era finito nell’occhio del ciclone per aver accolto una serie di ricorsi dell’Ilva: dal referendum chiesto dai cittadini per decidere sulla chiusura dello stabilimento a una serie di ricorsi di natura sanitaria. A febbraio il sindaco di Taranto, Ippazio Stefano, aveva ordinato la fermata degli impianti per effettuare una serie di lavori per ridurre inquinamento e impatto ambientale. Ma il Tar aveva sospeso il provvedimento sostenendo che non esisteva un’emergenza sanitaria tale da giustificare «l’esercizio del potere di ordinanza attribuito al sindaco». Qualche mese dopo sarebbe arrivata la decisione del gip, Patrizia Todisco, di sequestrare l’impianto proprio per l’emergenza sanitaria. «Ma se c’è qualche responsabile in questa vicenda — dice Cavallari — è chi doveva controllare e non lo ha fatto. Noi in 23 anni abbiamo avuto appena 36 ricorsi dell’Ilva e molti sono stati respinti, come per esempio quelli su alcune prescrizioni dell’Aia».
Assennato però faceva riferimento a un provvedimento dell’Arpa che, già nel 2010, imponeva all’Ilva di abbassare le emissioni di benzoapirene, l’inquinante segnalato come pericolosissimo oggi dai periti della procura. I tarantini potevano risparmiare due anni di veleno. Ma anche in questo caso, il provvedimento fu cassato. «Ma era incoerente — spiega il giudice amministrativo — si chiedeva all’Ilva di applicare determinate prescrizioni in materia di emissioni sulla base di parametri stabiliti in tempi successivi. Se si stabiliscono dei limiti alle emissioni, e poi quei limiti vengono abbassati, noi dobbiamo basarci sui parametri in vigore nel momento in cui si contesta il superamento di quei limiti». Cavallari, tra l’altro, in questi giorni è al centro di un’altra inchiesta giudiziaria. È indagato per abuso di ufficio con l’accusa di aver riassegnato un appalto a un’azienda che era stata esclusa per mafia. Firmò lui il provvedimento nonostante toccasse a un’altra sezione. «Ma era un provvedimento d’urgenza e la collega non c’era: agimmo in accordo. Sono serenissimo» conclude il giudice amministrativo.
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