by Sergio Segio | 6 Settembre 2012 7:12
Appena qualche secondo e via. Uno sguardo alle scarne agenzie, e poi un commento fatto più o meno sottovoce: «Un guazzabuglio». Meglio, molto meglio parlare d’altro per la stampa italiana. Dell’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin si scrive ormai solo nelle ricorrenze, quando proprio non ne puoi fare a meno. Qualche riga un po’ commossa il 20 marzo, giorno dell’agguato. Qualche secondo di Tg, la riproposizione della lacrime di Flavio Fusi, la sua voce rotta mentre annuncia la morte di quella collega che poche ore prima aveva annunciato «cose grosse». Eppure dietro le pallottole che hanno ucciso Ilaria e Miran c’è un nodo mai risolto della nostra storia. Una zona grigia, tante divise, un passaggio di consegna tra poteri in un anno che di fatto conclude la lunga stagione delle trattative, una settimana prima di quel voto che aprì le porte dei palazzi di governo all’alleanza tra gli eredi del fascismo, la lega prima maniera e l’affarismo berlusconiano. Un crocevia dove si alleano trafficanti, pirati somali, esponenti di Cosa nostra, spioni con troppi segreti da nascondere. Questo era il servizio di Ilaria Alpi, filmato da Miran Hrovatin, che dopo diciotto anni e cinque mesi non può ancora andare in onda nell’Italia delle trattative e degli accordi eversivi. Verità mancata, democrazia amputata, un pezzo di storia ancora oggi non capita fino in fondo nella sua portata.
Il somalo innocente
Lunedì scorso si è parlato del premio Ilaria Alpi, appuntamento ormai di punta per il giornalismo investigativo televisivo. Dopo le parole di Luciana Alpi – la madre della reporter Rai dallo sguardo fiero, penetrante, incapace di arrendersi – l’avvocato storico della parte civile Domenico D’Amati ha annunciato la fine di un processo chiave, completamente ignorato dai media. Pochi lo ricordano, ma c’è un somalo nel carcere di Rebibbia, Hashi Omar Hassan, condannato a 26 anni di reclusione, con l’accusa di essere uno dei componenti del gruppo di fuoco che uccise Ilaria e Miran il 20 marzo 1994, a pochi passi dall’ambasciata italiana da poco abbandonata. Una condanna che sostanzialmente si basò su una testimonianza chiave rilasciata da un altro somalo, Ahmed Ali Rage, detto Gelle il 10 ottobre 1997. Una deposizione molto probabilmente falsa, come lo stesso Ahmed ha raccontato nel 2002 in una telefonata ad un giornalista della Bbc: «Ho mentito – disse dopo la condanna – Hashi non c’entra nulla». Per poi aggiungere: «Sono stato pagato da autorità italiane per dire il falso». Versione dei fatti riconfermata all’avvocato di Hashi Omar Hassan, Douglas Duale, che ha assicurato i magistrati di essere certo dell’identità e delle parole pronunciate dal testimone “pentito”.
Gelle è oggi processato in contumacia per calunnia, dopo le sue rivelazioni. Ed è evidente che l’eventuale condanna riaprirebbe le porte del carcere ad Hashi Omar Hassan, ovvero al capro espiatorio che «una autorità italiana» avrebbe offerto alla fine degli anni ’90 per fermare le indagini. Come altrettanto evidente è la conseguente riapertura dell’intero caso Alpi, rimettendo in gioco le verità solo apparenti uscite dal processo contro il somalo oggi detenuto. Aggiungendo una domanda, ancora senza una risposta: quale autorità italiana pagò un testimone falso per depistare le indagini? Chi doveva essere coperto? «Questioni fondamentali – ha spiegato l’avvocato D’Amati – per arrivare ai mandanti dell’agguato».
La prescrizione dietro l’angolo
Questo processo chiave sta per concludersi nei peggiore dei modi. Il prossimo dieci ottobre scatterà la prescrizione, rendendo ancora più difficile la revisione della condanna di Hashi Omar Hassan, lasciando in carcere un innocente e – ancora una volta – senza giustizia l’omicidio di due giornalisti italiani in Somalia. Finale che garantirebbe l’impunità ad un agguato avvenuto alla presenza di nove mila uomini dell’Onu, con un contingente italiano a poche centinaia di metri, forte delle più agguerrite formazioni, come il battaglione Col Moschin della Folgore; una morte che si consumò praticamente sotto il naso del Sismi, il servizio segreto militare, che davanti ai giudici ha sempre sostenuto di non essere competente quando, in un teatro di guerra, a morire è una giornalista, qualcuno che per professione racconta ciò che accade.
Se fu incredibile la gestione della commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Carlo Taormina, la vicenda dell’unico processo sul caso Alpi – la cui coda terminerà con un nulla di fatto il 10 ottobre prossimo – è, senza giri di parole, agghiacciante. A trovare il testimone chiave è l’ambasciatore Cassini, inviato in Somalia dal governo Prodi nel 2007. Gelle – giunto a Roma – racconta di aver riconosciuto sul luogo dell’agguato Hashi Omar Hassan in una deposizione chiave rilasciata agli agenti della Digos di Roma il 10 ottobre 1997: «Il giorno dell’omicidio di Ilaria Alpi ed del suo operatore mi trovavo presso l’Hotel Amana in attesa di lavorare (…) Conosco una delle persone che si trovava a bordo della Land Rover da dove sono scesi coloro che hanno ucciso la Alpi e Hrovatin. Si chiama Hashi “Faudo”». Di quella deposizione – confermata poi davanti al Pm Franco Ionta il giorno seguente – rimane solo un verbale: nessuno – tra Digos e Procura di Roma – l’ha videoregistrata. Fatto curioso, vista l’importanza delle dichiarazioni, che contrasta con altre deposizioni dello stesso periodo quasi sempre incise su nastro. Un dettaglio non da poco, visto che sarà impossibile confrontare la voce di Gelle registrata durante la telefonata del 2002, quando spiegò di aver mentito e di essere stato pagato per testimoniare il falso.
Quando inizia il processo contro Hashi Omar Hassan, il testimone chiave è uccel di bosco. Dalle poche notizie raccolte dall’Interpol si sa che nel 2006 si trovava in Inghilterra, come rifugiato politico. Qui cambia nome, lasciando, però, alcune tracce fondamentali. E, nonostante sia inserito nelle liste Interpol come ricercato, nessuno si mette realmente sulle sue tracce per chiedere una conferma ufficiale di quella dichiarazione rilasciata al giornalista della Bbc e all’avvocato Duale. Dalle notizie raccolte dal manifesto Gelle – ovvero un somalo con lo stesso nome e la stessa età – risulterebbe aver subito un processo in Inghilterra (salvo omonimie), con una blanda condanna a qualche giorno di lavoro comunitario. Non risulta, d’altra parte, nessun accertamento specifico di Scotland Yard in quella occasione: eppure quel nome era da tempo nelle liste dell’Interpol, eppure le sue parole – se confermate – dimostrerebbero l’esistenza di un clamoroso depistaggio finanziato da «autorità italiane».
L’avvocato Domenico D’Amati spera che la prescrizione del processo per calunnia nei confronti di Gelle possa, paradossalmente, trasformarsi in un punto di svolta: «Deve sapere che dopo il 10 ottobre non rischia più nulla, vista la prescrizione. Potrebbe farsi vivo e raccontare finalmente la verità ». Liberando un innocente dal carcere e mettendo una pietra fondamentale per ricostruire quell’ultimo servizio di Ilaria e di Miran, una storia che aspetta da diciotto anni il momento della messa in onda.
Un segreto tra Roma e Mogadiscio
«Ilaria stava cercando di capire da dove arrivassero realmente tutte le armi che aveva sempre visto in mano a quella gente … Non mi diede alcun dettaglio circa la provenienza di quelle armi. Mi disse semplicemente che erano moderne, di fabbricazione russa o americana e che arrivavano di continuo. Sicuramente in quel periodo stava lavorando su questo particolare aspetto della situazione somala». Sandro Curzi fu il primo direttore di Ilaria Alpi. Il suo racconto davanti alla commissione Gallo prima – che indagava sulle torture da parte del contingente italiano, denunciate dai somali – e alla commissione Taormina poi, è limpido, senza la minima ombra di dubbio sul possibile contenuto del servizio mai andato in onda della giornalista di Rai 3. Notizie che solo in minima parte appariranno nel 2002, quando il gruppo di monitoraggio dell’Onu sull’embargo della Somalia ricostruì nei dettagli il trasporto di alcune armi da una fabbrica polacca alla zona del nord della Somalia, indicando apertamente la compagnia italo-somala Shifco come uno dei vettori. Ad organizzare quel traffico del 1992 fu uno dei principali signori delle armi, il siriano Monzer Al Kassar, arrestato dalla Dea nel 2007. Il Sismi conosceva quel traffico, tanto da documentare in una nota del 21 settembre 1992 – oggi declassificata – l’intera operazione poi raccontata dalle nazioni unite. E il centro finanziario di quel gruppo di trafficanti era l’Italia, come racconta il servizio segreto militare italiano: «La sede romana della banca nel mese di marzo 1992 avrebbe accreditato 500 mila dollari a favore del noto trafficante di armi Monzer Al Kassar». Una delle tantissimi tracce mai seguite fino in fondo, un pezzo di quella storia che Ilaria e Miran non hanno potuto raccontare. Un segreto somalo che qualcuno ha voluto coprire.
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