Il vero paradiso è sotto i nostri piedi

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Cerchiamo allora di provare a noi stessi di essere ancora in vita, magari giocandoci tutto sapendo che, in fondo, non vinceremo niente». Ma ciò che conta, prosegue Le Breton, è l’istante fatale, l’ebbrezza «del sopravvivere, l’istante di potenza», per dirla con Elias Canetti, a cui tutti oramai abbiamo accesso. Non fosse, appunto, che per un istante.
Antropologo, professore all’Università  di Strasburgo, David Le Breton ha dedicato gran parte della propria ricerca ai temi del corpo, dei riti di iniziazione, della ferita e del dolore in un contesto di modernità  che avanza in linea reatta. In uno dei suoi testi più popolari, Il mondo a piedi. Elogio della marcia (Feltrinelli, 2001), David Le Breton invita a praticare percorsi meno battuti e trasversali, con i piedi e con il pensiero, per recuperare un ritmo e un tempo che rischiano altrimenti di declinarsi al solo imperativo del «competere».
Abbiamo incontrato David Le Breton a margine della rassegna Torino Spiritualità , dove domenica 30 settembre terrà  una lezione sulla «Antropologia del sorriso».
In un libro del 1991, Passion du risque (Passione del rischio, edizione italiana a cura di Mauro Croce, Edizioni Gruppo Abele, 1995) lei analizzava il continuo rimodularsi della soglia di percezione del rischio, anche attraverso riti di passaggio e pratiche estreme diventate oggetto di marketing e formazione aziendale. Oggi, più che l’estremo, è sul gioco che certa retorica insiste. Insiste non a caso, e probabilmente fuori tempo massimo, facendo ricorso a un termine nel frattempo saturato di ambiguità : «gamification». Il sospetto è che dietro l’innocenza evocata da espressioni come game, play, gioco si nasconda altro…
Parlare di gamification per caratterizzare il mondo contemporaneo dell’impresa è alquanto paradossale. Oppure dobbiamo considerare che le parole spesso sono usate come gomme per cancellare aspetti troppo aspri della realtà  sociale. Piuttosto è la guerra a dominare oggi i rapporti tra le imprese presenti sul mercato, e le nuove forme di management casomai tendono a contrapporre dipendenti e dirigenti tra loro. Siamo molto lontani, quindi, dai vecchi principi di Elton Mayo, uno dei fondatori della psicologia e del lavoro, che ha mostrato come le prestazioni migliorano se improntate non alla competizione, ma alla solidarietà  tra i lavoratori, allo spirito di squadra e al riconoscimento della direzione della società .
Oggi, più che far cooperare o legare gli attori tra loro, si tratta di dividerli, mettendoli in continua competizione, facendo lavorare il fantasma che continuamente e illusoriamente rimarca come il battersi, anche all’interno di un’impresa, possa aumentare la combattività  dell’impresa stesso all’esterno, forgiando i caratteri. Il miraggio della partecipazione ai guadagni si fonda su un utilitarismo radicale nella convinzione che l’uomo vive solo per il profitto. Questa è chiaramente una sciocchezza. Il gioco, in tal senso, è stato ben più presente in azienda negli anni Novanta di quanto non lo sia ora. Le aziende portavano «fuori» i propri dirigenti, li facevano partecipare a un rischio, sperimentando però anche la solidarietà  e la fiducia reciproca, nel combinarsi delle competenze, in situazioni estreme. Lo sforzo congiunto, la fatica, la paura comuni erano una prova di verità  per l’impresa. Possiamo contestare questa «visione», ma quantomeno creava legami, sviluppava solidarietà  e persino un senso di amicizia. Con tutti i suoi limiti, questo comportava anche effetti positivi, in termini di solidarietà , per l’impresa stessa. Ora le cose sono cambiate, e non in meglio.
Forse perché è mutato il contesto, il gioco è uscito dall’ambito del lavoro, anche perché il lavoro – dentro o fuori che sia – non esiste più. Resta il gioco, però, o un simulacro di gioco, che crea solidarietà  perverse. Non puoi lavorare, non hai reddito, sei indebitato? E noi ti diamo la tua competizione quotidiana, quella Balzac chiamava «l’oppio della miseria». Crede che almeno in questo senso si stia definendo una cultura «post-ludica»?
Credo proprio di sì. Le disuguaglianze sociali attuali sono d’altronde tante e tali da indurre una risposta di attesa messianica nella forma della vincita alla lotteria. La proliferazione di giochi che sono a disposizione di tutti, nei negozi, dal tabaccaio o su internet ci indicano una precisa tendenza. Siamo costantemente chiamati a porre rimedio alla nostra sorte attraverso l’acquisto, per una modesta somma, di un biglietto che istantaneamente promette di cambiare le cose. Poiché le condizioni socio-economiche sono quello che sono, poiché non abbiamo modo di imprimere una diversa direzione al corso delle cose, allora ci rimettiamo alla magia e alla credenza intima che la fortuna non può sfuggirci di mano per sempre.
Ma a questo proposito siamo esattamente all’opposto rispetto all’homo ludens di cui parlava Johan Huizinga nel suo celebre libro del 1939. Siamo all’opposto perché le nostre società  tendono da un lato a produrre una corsa in avanti dei più ricchi verso una ricchezza che finisce per soffocarli, poiché molte vite non saranno sufficienti a spendere tutto quello che sono in grado di raccogliere. D’altro verso, per tutti gli altri la corsa della vita è condotta a rotta di collo e non li spinge verso il «benessere» o la «ricchezza», ma è semplicemente un tentativo quotidiano di far quadrare quei pochi conti che restano, solo per non dormire all’addiaccio o per mangiare qualcosa la sera.
Bisogna comunque notare che il giocatore che acquista una manciata di gratta e vinci o qualche biglietto della lotteria, anche se si trova in una condizione di miseria, vive un momento di esaltazione, di intensità  d’essere. Poiché gli è dato di guadagnare qualcosa, ha il cuore che pulsa. In questi brevi momenti, sente di poter riparare alla sorte, spera di poter uscire dall’imbarazzo, dalla sofferenza, dall’umiliazione in cui un’esistenza sempre più precaria e senza futuro lo ha consegnato. Per qualche istante, il giocatore ritrova l’incanto di vivere. È chiaro che non guadagnerà  mai nulla, che non porrà  rimedio al proprio destino – chiamiamolo così – ma non di meno continua a credere che domani sarà  migliore di oggi. È un oppio della povertà , sono d’accordo. Alla fine, oltre tutto, la maggior parte delle vincite si riduce a poche decine di euro, ma quantomeno al bar, dal tabaccaio o tra gli amici si parlerà  di lui come di un uomo fortunato. È questa irruzione dell’evento nel corso della sua vita che gli dà  il sentimento di esistere.
Potremmo dire che la vita è realmente e forse anche miseramente in gioco. E con la vita, entrano in gioco identità , riconoscimento, immagine degli altri e di sé, ma anche il corpo. Nei nuovi «legami social», scomparsa l’idea di limite, forse inaspettatamente riappaiono le vecchie figure che Roger Caillois richiamava per definire il gioco, appunto: agon, la competizione, alea, il puro caso, la vertigine e la maschera…
In una società  di individui, il corpo è il punto terminale in cui si intersecano il senso di sé e il luogo dove inizia l’altro. I limiti del corpo interrogano i limiti dei legami sociali, ma questi legami sono danneggiati. Potremmo «azzardare» dicendo che il limite non c’è più. Il senso di identità  dei nostri contemporanei è spesso labile, non fondato su identificazioni simboliche solide, ma su dati di contesto e ambiente e sul possesso di oggetti che hanno un temporaneo valore di segni di riconoscimento, oggetti sempre obsolescenti. Oggetti sempre più legati all’universo cangiante del mercato e dell’industria del divertimento. In maniera spesso deliberata, a volte senza il sapere di una coscienza riflessiva, molti dei nostri contemporanei stanno giocando con la propria identità . Meno che mai si tratta di una sostanza, ma essa rimane senza dubbio una matrice.
Questa identità  conosce messe in gioco multiple che toccano l’individuo in profondità  o in superficie, secondo il suo impegno personale. L’identità  diventa a geometria variabile, come il corpo, che si erige a materiale della persona, diviene accessorio per modellare un carattere. Il corpo è diventato la materia prima per fabbricare se stessi. Internet accentua questo fenomeno: è un carnevale enorme, lo si riveste di innumerevoli maschere. Poiché non si ha più un volto, non si corre più il rischio di guardarsi allo specchio. Ritroviamo così sul web le categorie che Roger Caillois applicava al gioco: la vertigine delle identità  multiple, l’agon per cercare di costringere gli altri a aderire al tuo personaggio, l’alea nell’incertezza dell’identità  degli interlocutori e infine la mimicry, il traverstimento, che consiste nel prendersi per il personaggio che credevamo di interpretare.
Queste categorie sono giocate, però, in un rapporto di costante accelerazione. Lei ha dedicato un libro al piacere del camminare, al rallentare il passo rispetto all’alta velocità  che, treni a parte, sembra un’altra parola chiave dei nostri tempi.
Camminare è sempre un gioco, ma nel cielo aperto del mondo, in maniera felice. Prendendo il suo zaino, il camminatore ha già  vinto. Vivrà  ore di piacere, seguendo il suo ritmo, conversando con chi lo accompagna. Si arricchisce a ogni passo. Camminare è un viaggio lungo e aperto nel mondo, disponibili a ciò che verrà . L’uso dei sentieri, è una via «altra» per riprendere fiato, affinare i sensi, rinnovare la propria curiosità  e conoscere momenti di vera «eccezione». Se ci diamo ai luoghi, i luoghi generosamente si doneranno a noi. Naturalmente, il camminatore vede solo ciò che era già  in lui, ma ha bisogno di queste condizioni di disponibilità  per aprire gli occhi ad altri livelli di realtà . Senza ricettività  interiore non si fa nulla, si va per la propria strada a testa bassa, lasciando dietro di sé possibilità  non colte. Il camminare contrasta gli imperativi di velocità , efficienza, rendimento, efficacia. Non si tratta più di essere presi dal tempo, ma di prendere il proprio tempo. Oggi i sentieri sono pieni di flà¢neurs che camminano a modo loro, seguendo il proprio passo e il proprio tempo, parlano con gli amici o meditano in silenzio e in pace nel vento. Soltanto la lentezza ci colloca all’altezza delle cose e nel ritmo del mondo.
Il camminare spoglia, denuda e ricorda all’uomo l’umiltà  e la bellezza della sua condizione. Mettendo il corpo e i sensi al centro dell’esperienza, ma in modalità  attiva, la marcia ricolloca l’uomo in un’esistenza che spesso gli sfugge, soprattutto in condizioni sociali e culturali come le nostre. Il pellegrinaggio, un tempo, era una una liberazione e una lunga preghiera. Colui che moriva sul ciglio della strada guadagnava il paradiso. Oggi, la ricerca è semmai quella di un ritorno su di sé, di un’introspezione, di un esame di coscienza. Il paradiso promesso è sotto i nostri piedi. Consiste nel chiarire il rapporto con gli altri o il mondo in momenti in cui si ha la sensazione personale che ci stia sfuggendo tutto. Viaggio in un tempo interiore, che sulla strada favorisce la simultaneità  di progetti e memoria. Vivere riacquista allora una sua chiarezza. Fuori dal tempo o in un tempo rallentato, camminare è uno sforzo a misura d’uomo. Solo l’uomo decide le strade, niente gli impedisce di fermarsi e attendere. Nulla gli impedisce l’incontro. Gioca? Sì, gioca, ma non sta correndo più veloce della propria ombra.

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IL PROGRAMMA
Sorrisi di vario tipo come filo conduttore

«Un giorno senza un sorriso è un giorno perso» pare abbia detto Charlie Chaplin, e questa frase – del tutto condivisibile – fa ora da exergo al comunicato dell’edizione 2012 di Torino Spiritualità , che comincia oggi nel capoluogo piemontese e che ha appunto il suo filo rosso nel sorriso – «indagato come straordinaria predisposizione dell’animo a sollevarsi sulla pesantezza del mondo per accedere alla profondità  del pensiero». Tre i percorsi di approfondimento articolati in oltre cento incontri (il programma completo su www.torinospiritualita.org): la leggerezza dello Spirito, il sorriso consapevole, accompagnato da un inquieto (e inquietante) ghigno, le regole del gioco. Tra gli ospiti – oltre a David Le Breton – George Steiner, Aharon Appelfeld, Moni Ovadia, Henry Quinson, Michela Marzano, Roberta De Monticelli, Sergio Givone, Paolo Nori, Isabel Losada, Enzo Bianchi, Gustavo Zagrebelsky.


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