IL SUCCESSO DI QOHà‰LET

by Sergio Segio | 26 Settembre 2012 6:08

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Il figlio di Davide, re in Gerusalemme, non è un sistematico. Il suo linguaggio è a salti, pezzi e bocconi, aggiunte e contraddizioni. Tale composizione ha permesso agli interpreti di Qohélet di rispecchiare se stessi nel testo con molta libertà , piuttosto che rispecchiarlo. In quanto sfogo d’uno spirito radicalmente sfiduciato o deluso circa il vero, il giusto, il buono, circa tutto ciò che ha valore in sé, si è considerato questo piccolo libro (chiamato anche Ecclesiaste) un precursore dell’arte di vivere senza eccessi («non essere né troppo giusto né troppo malvagio»: 7,16) à  la Montaigne o la testimonianza d’un disperato della vita (“voglio provare la gioia, ma a che giova?: 2, 2) à  la Leopardi, per fare solo due nomi. Si è visto in lui un padre dello scetticismo, del nichilismo, della disperazione e, alla fine, dell’edonismo egoistico, come farmaco e rimedio al taedium vitae di Lucrezio e Seneca o allo spleen di Baudelaire. Ma l’esaltazione della vita, soprattutto giovanile, ha fatto pensare anche a un’apologia della gioia di vivere. Altri, nella denigrazione dei beni del mondo hanno visto un “antidoto all’idolatria” delle cose vane e brevi (E. Bianchi): oggi, il successo, il denaro, i prodotti della tecnologia. Queste sono più o meno arbitrarie interpretazioni attualizzanti. Qualcuno, seguendo Renan, vi ha perfino visto tratteggiato il profilo psicologico dell’Ebreo
moderno, completamente secolarizzato e assimilato al mondo: una visione che può facilmente essere generalizzata. Ma, in fondo, ogni interpretazione è attualizzazione e riflette il volto dell’interprete nelle condizioni del tempo che è il suo. In quanto testo privo di certezze “ontologiche”, che colloca l’essere umano in uno spazio non governato dalla dura verità  dell’essere divino che si rivela o che è rivelata, lo si è considerato espressione di “spirito laico”: lo spirito della ricerca e dalla sperimentazione pragmatica di “tecniche di sopravvivenza” materiale e spirituale. Oppure, infine, s’è parlato di “spirito d’attesa”, soggiacente all’esaltazione della vanità  del mondo. Nel vuoto della vita e nell’insignificanza in cui siamo immersi, Qohélet ci fa sentire l’urgente bisogno di uno svelamento, di una “rivelazione”. Sarebbe un libro dell’attesa, quasi un’invocazione messianica. Finalmente, la denigrazione del mondo si può intendere come una spinta, una preparazione all’accoglienza di un mondo che verrà , un “mettersi sulla soglia” di qualche evento o avvento portatore di senso (P. De Benedetti). Questa è la pia interpretazione cristiana, già  a partire dall’orazione “Vanitas vanitatum” di Giovanni Crisostomo: un’interpretazione che la svalutazione luterana del mondo e l’attesa della salvezza solo “per grazia” accentueranno.
Qui, non c’è da prendere posizione. Il testo è fisso, le parole sono ricche di significati e le interpretazioni sono libere. L’unica cosa che non si può negare è l’esistenza del filo conduttore, la vanità  delle vanità  che lega tutto il discorso, dall’inizio alla fine, in un moto circolare, che riproduce letterariamente la legge universale che muove in un circolo chiuso le cose del mondo, sotto il sole.
Un libro attuale? All’epoca in cui fu il libro fu scritto (tra il III e il II secolo a. C.) dovette esserlo. Non mancano accenni polemici, oggi quasi incomprensibili, a vicende contemporanee. In generale, Qohélet è figlio del suo tempo, un tempo d’incertezze rispetto ai valori della tradizione, insidiati da influenze scettiche provenienti dalla
cultura ellenistica, dal sorgere di sette fanatiche come quella degli Esseni, e da movimenti politico-radicali per la restaurazione della pura fede dei padri, senza che valori nuovi apparissero all’orizzonte: un tempo del “non più” e del “non ancora”. Qohélet reagisce con distaccata indifferenza, come i grandi scettici che additano nei piccoli piaceri l’efficace lenimento dei dolori d’una vita senza speranza.
E oggi? Se guardiamo al successo che il nostro testo incontra, e in misura crescente, nella letteratura esegetica, nella poesia, nel teatro, nella musica, nel senso comune che si è appropriato di tante espressioni di Qohélet, facendole sue e dimenticando la fonte; se diamo al giovanilismo odierno, alla paura dell’invecchiamento e agli esorcismi contro la morte il significato d’un marchio del tempo, al di là  del loro aspetto grottesco e disperato, possiamo forse credere in Qohélet come filosofo per i nostri giorni, e fare nostra la parola di Ceronetti: qohéletite. Anche questo odierno incontro potrebbe essere un sintomo di qualcosa, come un’infezione dello spirito. Oppure, potrebbe essere il segno della speranza in qualcosa che deve nascere. Per capirne di più, occorrerebbe l’interrogazione, niente di meno, sui caratteri profondi dello spirito dell’epoca attuale, nel confronto con lo spirito cui Qohélet, ventidue secoli fa, diede voce.
Anche la saggezza di Qohélet è vana?
Di qohéletite si può morire. E anche morire percorrendo una strada di piacevolezze. Chi non ha sentito il fascino poetico delle potenti immagini che descrivono l’insignificanza dei giorni della vita “sotto il sole”? Chi non direbbe: è proprio così, so anch’io che è così? Le parole di Qohélet cadono su un terreno predisposto ad accoglierle. E chi non ha detto: prendiamo dalla vita, momento per momento, il piacere effimero che può dare, senza pensare al futuro? Anche a questo, il terreno è predisposto. E se poi Dio “ti convocherà  in giudizio” (11,9), gli si potrà  dire: ma proprio tu mi hai messo nella disperata condizione mortale e non mi hai detto come uscirne. Devo sì ricordarmi del mio creatore (12, 1), ma proprio perché me ne ricordo e so d’essere quello che hai voluto ch’io fossi, procedo così.
Condannami, se puoi!
Dunque, la voce di Qohélet è seducente. Ma è anche convincente? Egli si presenta spoglio d’ogni orgoglio e anche in questo consiste il suo potere seduttivo. Ma la sua è modestia solo apparente. Non dice: questo o quello è vanità , ma tutto, veramente tutto, è vanità , anzi è vanità  delle vanità . In verità , qui non c’è modestia, ma massima prova d’orgoglio. È un mettersi al di sopra di tutto e di tutti. Ma quest’atto d’orgoglio troppo s’innalza e rovina su se stesso. Se tutto è vano, infatti, lo sono anche, e specialmente, le parole di Qohélet stesso. Se non sono vane, allora non è vero che tutto è vano e altro ci può essere che contraddice “non vanamente” quelle parole. Del resto, Qohélet, sulla sua “vanità ” costruisce addirittura un’etica, l’etica del vano godimento della vita. In base a quale principio o autorità  preminente può egli dire che tutto è senza valore, salvo ciò che viene detto da lui stesso? Si uscirebbe dalla difficoltà  se si dicesse che il nostro testo non parla della “vanità ” della vita, ma solo dei “vanitosi” che incontriamo nellavita: questi sì sarebbero vani e vuoti, ma tra questi potrebbe non esserci Qohélet stesso in quanto egli prenda le distanze (come in 7, 8) dalla vanità  dei vanitosi. La vanità  e la vuotaggine, allora, potrebbero non riguardarlo. Ma, per quanto le interpretazioni possano spaziare, una come questa varrebbe ad appianare le impervie vette del testo in una visione banalizzatrice, ma trascurerebbe il dato più evidente: Qohélet non si professa affatto diverso da tutti gli altri mortali; non si dichiara esente dalla legge generale della vanità  della vita. Al contrario, anch’egli è completamente irretito nella vanità  del mondo, nell’assurdità  di tutte le vite che si svolgono sotto il sole, destinate a essere ugualizzate nella morte. Si considera un “pezzo” della generale insensatezza; anzi, un testimone autorevole di questa generale condizione.
Non dobbiamo considerare quelle che precedono vane esercitazioni logiche. Dobbiamo invece respingere, come fallaci e tentatrici, tutte le affermazioni autoriflessive circa il valore (vero o falso, vano o non vano) delle affermazioni medesime. Esse sì sono insensate. Una proposizione non è vera o falsa perché tale è detta da chi la pronuncia. Occorrerebbe un fondamento, un criterio esterno. Orbene, potrebbe essere tanto che Qohélet abbia ragione quanto che abbia torto. Ma, per poter dire una cosa o l’altra, dobbiamo cercare la verità  fuori delle sue parole. Non c’è verità  in Qohélet.
C’è molta suggestione e poesia, autocompiacimento d’un animo depresso, ideologia – qohéletite – tipica d’un tempo di crisi. C’è nelle sue parole “fame di vento”. O, forse, c’è la generalizzazione d’un’esistenza individuale di fallimenti. Ma perché dovremmo concedergli l’autorità  di parlare per tutti e per sempre, e condannare come insensata in generale la ricerca di qualcosa che vale, e come illusoria l’azione rivolta a costruire, nella vita individuale e in quella collettiva, qualcosa che vana non sia?

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