Il sublime sentimento dell’amicizia
Ho un grande affetto per Michel de Montaigne. Anch’io lo chiamerei, come Flaubert, «Mon pére nourricier». E il cuore e la chiave della sua vita era l’amore che nutriva per il padre. «Ho avuto — diceva — il miglior padre che ci sia mai stato e il più indulgente fino alla sua estrema vecchiaia». Questo amore era fatto di dolcezza e di tenerezza: aveva qualcosa dell’amore fraterno e dell’amore filiale; ma poi tutti questi sentimenti si imbevevano di un immenso rispetto e di una immensa venerazione. Di lì, nasceva un sentimento di unità famigliare che avvolgeva i Montaigne come un bozzolo. In un’epoca in cui la religione armava il fratello contro il fratello, il figlio contro il padre, era quasi impossibile trovare una simile concordia, in una famiglia i cui membri provavano sentimenti religiosi diversi. Per quanto fosse fermo nelle sue convinzioni, Pierre Eyquem de Montaigne poneva al di sopra di tutto la libertà di coscienza.
Montaigne amava nel padre «il dono di farsi piacere quello che aveva» (dono che condivideva) e la straordinaria vitalità e fisicità che ne derivavano. Ma la vitalità del padre era, dal punto di vista fisico, molto più grande di quella del figlio. Michel, il primo figlio rimasto in vita, nacque nel 1533 e Bertrand, l’ultimo, quando Michel aveva già ventisette anni. Tutto, nel castello di Montaigne, pullulava di alacricità e letizia; e vecchi e bambini giocavano insieme e si abbracciavano. «Non c’era nessuno che fosse pari a Pierre nell’esercizio del corpo»; e con un’ammirazione quasi infantile il figlio contemplava il padre, a più di settant’anni, mentre saliva nella sua stanza facendo i gradini a tre o quattro per volta.
Per quanto fosse sindaco di Bordeaux, Pierre de Montaigne fu un uomo semplice o, per meglio dire, amava le cose semplici e le nature semplici. Quando morì, volle essere sepolto nella chiesa parrocchiale di Saint-Michel-de Montaigne «con le stesse cerimonie degli abitanti più miserabili della parrocchia»; e distribuì elemosine ai poveri e regali ai fittavoli del territorio. Anche la vita del figlio fu semplice. Il padre l’aveva inviato in culla tra la gente del popolo, per esservi educato e diventare simile a loro — lui che sarebbe stato uno dei più sottili, complicati e squisiti uomini e scrittori di Francia. Da bambino, conobbe soltanto due volte le verghe, abitudine così comune in quell’epoca; e non veniva mai risvegliato con la costrizione, ma soltanto col suono di qualche strumento musicale. Così il figlio amò essere simile al padre, anche nelle cose più spiacevoli: soffrivano entrambi di mal della pietra. E che il padre fosse stato sindaco di Bordeaux lo riempiva di orgoglio, perché anche lui diventò sindaco: due volte, mentre il padre lo fu una sola volta.
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Se parlava così calorosamente del padre, Montaigne non ci disse mai nulla della madre, sebbene, quando era bambino, lei potesse rivolgergli la parola soltanto in latino. La madre si chiamava Antoniette de Louppes (o Lopez) de Villeneuve e discendeva da una famiglia di marrani: ebrei spagnoli convertiti, ricchi mercanti, presidenti del Parlamento, consiglieri, giurati. La storia della famiglia era stata complicatissima. Il capo della famiglia, Mosè Paà§agon o Patagon, si convertì tra il 1411 e il 1414, sotto la minaccia della persecuzione, prendendo il nome di Garcia Lopez. Tre della famiglia, tra cui il padre del trisavolo di Montaigne, furono arsi sul rogo. Poi la famiglia si diradò: qualcuno soggiornò prima a Londra, poi ad Anversa; qualcuno diventò un pilastro del protestantesimo olandese; qualcuno fervente cattolico; qualcuno padre gesuita; qualcuno terziario dell’ordine francescano. Tutto variava, si trasformava, s’intricava: la storia di questa famiglia di marrani assomigliava un poco alla psicologia mutevole di Michel de Montaigne.
Montaigne aveva molta simpatia per gli ebrei. Diventò padrino di Michel Dacosta, nato sei giorni prima da due marrani di origine portoghese: ebbe grande interesse per i riti ebraici e per tutto ciò che avveniva nelle sinagoghe di Roma, Venezia e Vienna. Ma non pensava che le sue origini marrane fossero un elemento importante o significativo della sua esistenza. Lui era un francese, un cattolico, un cittadino di Bordeaux: era soprattutto il figlio di Pierre Eyquem de Montaigne.
Quanto a Antoniette de Villeneuve, era una sincera signora cattolica malgrado la discendenza ebraica: intelligente, più prudente e accorta che affettuosa, economa, abile nella gestione del patrimonio: pensava che il marito spendesse troppo per la cultura di Michel. I suoi testamenti lasciano capire che il rapporto sia col marito sia col figlio fossero basati su di un affetto estremamente parsimonioso. Nel testamento steso cinque anni dopo la morte di Michel, lasciò scritto che non voleva essere sepolta accanto al marito, ma in una chiesa di Bordeaux. Col figlio, ebbe tensioni per la gestione del castello di famiglia.
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Prima di cominciare a scrivere gli Essais, Montaigne conobbe à‰tienne de La Boétie: nel 1559, quando aveva ventisei anni, La Boétie era un poco più anziano di lui: l’amicizia durò, intensissima, per quattro o cinque anni; e poi finì improvvisamente con la morte di La Boétie, lasciando Montaigne in un infinito dolore.
L’amicizia cominciò lentamente, alludendo a qualcosa di imprecisabile e senza volto. Poi diventò «non so quale forza inespicabile e fatale, mediatrice di questa unione». Montaigne non aveva mai conosciuto né conoscerà mai nulla di simile: il mistero, la fatalità , la sovranità astrale nei sentimenti umani, lui che abitava di solito negli ondeggiamenti e nelle variazioni dell’anima. Se vogliamo usare le dubbie parole del linguaggio filosofico, fu una grande amicizia stoica.
Nel Rinascimento neoplatonico, che Montaigne costeggiò, una tenerezza sensuale e lirica invadeva le anime. Ma l’amicizia di Montaigne per La Boétie non aveva nulla di neoplatonico. Era un’amicizia assoluta: un’amicizia perfetta e indivisibile. «Se mi si chiede perché l’amo, sento che non posso, esprimermi se non rispondendo: “perché è lui”; “perché sono io”. Ciascuno si dava al proprio amico, tanto intensamente che non gli restava nulla da spartire con gli altri». Le due anime si immersero l’una nell’altra fin nel profondo delle viscere: non solo Montaigne conosceva l’anima dell’amico come la sua, ma certo si sarebbe affidato a lui più volentieri che a se stesso. C’è un’espressione bellissima che torna continuamente negli Essais: tuffarsi, perdersi. «Mi tuffai e mi persi nella sua volontà e lui si tuffò e si perse nella mia»: «viveva, godeva, vedeva per me e io per lui, altrettanto pienamente che se fosse stato per me». L’amicizia era l’assoluta conquista dell’altro e l’assoluta perdita di sé: la perfetta conquista di sé e la perfetta perdita dell’altro.
Quando La Boétie morì nel 1563, Montaigne comprese che il suo compito era, in primo luogo, quello di diventare il guardiano della tomba dell’amico. Non smise mai: diciotto anni dopo la sua morte, aveva ancora fitte dolorosissime e intollerabili, pensando a quell’anima e a quel volto amici. Non faceva che languire sulla traccia del proprio ricordo.
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Sebbene amasse moltissimo viaggiare, forse Montaigne passò la maggior parte del suo tempo nella biblioteca al terzo piano della torre del suo castello. La biblioteca aveva tre grandi finestre, dalle quali entrava il soffio dei venti, gli odori degli alberi e, due volte al giorno, il suono dell’Ave Maria. Possedeva quasi mille libri, dei quali ce ne sono giunti settantasei, col suo nome e talvolta le sue annotazioni. Dai libri estrasse cinquantasette sentenze: le fece iscrivere sulle travi del soffitto, in modo che ora proteggessero, ora deridessero dall’alto il suo lavoro di commentatore dell’universo. «Tutte queste cose, con il cielo e la terra e il mare, non sono nulla a paragone della somma totale di tutte le somme» (Lucrezio). «Non comprendo» (Sesto Empirico). «Dio non vuole che altri sappia al di fuori di lui» (Erodoto). «Tutte le cose sono troppo difficili perché l’uomo possa comprenderle» (Ecclesiaste). «La vita più dolce è non pensare a niente» (Sofocle). Undici di queste sentenze appartenevano all’Ecclesiaste, ma la maggior parte di esse sono state manipolate da Montaigne.
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Marie de Gournay Le Jars, un’aristocratica della Piccardia, lesse per la prima volta gli Essais probabilmente nel 1584, quando aveva diciannove anni. Era una giovane tanto emotiva quanto celebrale, con una grande fronte, occhi lontani fra loro, naso dritto, bocca piccola e un’espressione insieme pensierosa e imperiosa. Ammirò moltissimo il libro, nel quale vide l’equivalente dei grandi classici: si convinse della straordinaria affinità che aveva con Montaigne; e pensò che avrebbe dovuto ereditare la parte che La Boétie aveva avuto nel cuore dell’amico. Si conobbero quattro anni dopo. Poiché il padre di Marie era morto da dieci anni, egli le propose di diventare la sua fille d’adoption. Forse la proposta veniva da Marie, che, secondo Montaigne, aveva per lui un eccesso di ammirazione e di venerazione.
Nel novembre 1588, si trovava a Gournay-sur-Aronde. Marie ci ha raccontato le loro passeggiate e le loro conversazioni, nel giardino della casa lungo le rive del fiume. L’ultimo giorno lessero insieme uno de testi dei Moralia di Plutarco, che parlava d’amore. Marie raccontò a Montaigne un romanzo che aveva immaginato e stava componendo. Sebbene Montaigne la giudicasse più dotata per la filosofia che per la letteratura, l’accolse con benevolenza; e quando si lasciarono, lei lavorò per dare una forma al suo testo, il quale fu poi trovato tra le carte di Montaigne.
Ci riesce difficile comprendere cosa Montaigne sentisse per Marie. In uno degli Essais scrisse: «Mi sono compiaciuto di dichiarare in molte occasioni le speranze che ripongo in Marie de Gournay Le Jars, mia figlia spirituale: e certo da me amata molto più che d’affetto paterno e inclusa nel mio ritiro e nella mia solitudine come una delle parti migliori del mio stesso essere. Non considero più che lei al mondo. Se dall’adolescenza si può trarre presagio, quest’anima sarà un giorno capace delle cose più belle e tra le altre della perfezione di quella santissima amicizia alla quale non abbiamo notizie che il suo sesso abbia potuto finora innalzarsi». Non so cosa pensare di questo brano; se davvero Montaigne ammirasse in lei «la perfezione della santissima amicizia». Forse il brano, come suppone Donald Frame, è stato ritoccato, trasformato o tagliato dalle mani di Marie. In ogni caso, i rapporti tra Montaigne e Marie continuarono. Pagine degli Essais furono dettati a Marie e trascritti. Dopo la morte di Montaigne, Marie conservò stretti rapporti con la sua famiglia; e curò edizioni degli Essais, che hanno un grande peso nella loro storia editoriale.
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Come il padre, negli ultimi anni di vita. Montaigne sopportò una grave malattia della pietra, che non gli impediva di andare liberamente a cavallo — corse veloci che gli suggerivano idee e immagini. Durante gli ultimi anni di vita, la malattia confinò sempre più Montaigne nel castello, sebbene il suo spirito, come testimoniano le aggiunte a mano al suo testo, restasse vivacissimo e vagabondo.
Morì nel suo castello, tra i libri e le incisioni che gli offrivano la loro saggezza, nel settembre 1592. Sappiamo che rimase tre giorni senza poter parlare, ma ancora pieno di intelligenza. Così doveva scrivere qualche parola su un biglietto per far conoscere i suoi desideri. E quando sentì la fine avvicinarsi, pregò la moglie con uno scritto di invitare alcuni gentiluomini suoi amici, per prender congedo da loro. Morì il 13 settembre. Quando gli amici arrivarono, fece dire la Messa nella sua camera e giunti all’Elevazione, si slanciò come a corpo perduto, con le mani giunte, sul suo letto; in quel momento rese lo spirito a Dio.
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