IL SENSO DEL LAVORO

by Sergio Segio | 18 Settembre 2012 7:17

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Leader e intellettuali di ogni orientamento politico oggi discutono della possibilità  di un nuovo approccio all’organizzazione e alla gestione del sistema economico. Per rispondere a questa esigenza, gli imprenditori dovrebbero almeno riconoscere di essere parte integrante delle società  in cui operano. Il capitalismo affonda le sue radici in due tradizioni: il protestantesimo individualistico della Riforma e l’affermazione della “sfera pubblica” di origine illuministica. Negli ultimi trent’anni anni si è assistito a un sistematico tentativo, per iniziativa del neoconservatorismo americano, di negare il ruolo dell’Illuminismo per concentrarsi esclusivamente sull’individualismo. L’assunzione del rischio individuale è stata posta al centro (o presunto tale) del modello economico occidentale, e il profitto a breve termine è diventato l’unico metro di misura del successo. Il concetto di “uomo economico razionale” si è sviluppato a partire da questo approccio intellettuale quasi-ideologico, assurgendo a dogma del sistema imprenditoriale occidentale. Di conseguenza, la maggior parte delle organizzazioni considera una priorità  la creazione di condizioni che favoriscano l’autonomia manageriale, la massimizzazione del valore per gli azionisti e la mercificazione del lavoro, anziché il riconoscimento dell’interdipendenza tra impresa e società , o del ruolo delle finalità  e del valore sociale all’interno dell’impresa stessa.
Non bisogna dimenticare, tuttavia, che alle prime organizzazioni imprenditoriali di rilievo – la Compagnia olandese delle Indie orientali, per esempio – fu concesso il privilegio della costituzione in società  commerciali in cambio della garanzia di concreti benefici pubblici. Esse furono costituite, cioè, per una finalità  da cui erano intente a ricavare profitti. Per la Compagnia olandese delle Indie orientali, l’obiettivo era quello di regolamentare il mercato esistente al fine di massimizzare i ricavi per le Repubbliche olandesi, impegnate a combattere i loro rivali e a impedire ad altre nazioni europee di penetrare nelle loro rotte commerciali. La Compagnia inglese delle Indie orientali fu costituita allo stesso modo. I profitti erano funzionali al raggiungimento di uno scopo.
La tradizione delle corporazioni che esprimono uno scopo commerciale con un valore pubblico e sociale è stata sviluppata da quei filosofi illuministi secondo cui sono l’interconnessione sociale e i rapporti all’interno della comunità  a dare senso alla nostra vita. Per Rousseau, ad esempio, quest’ultimo può essere raggiunto attraverso la vita di comunità  e l’interazione sociale, che consentono agli individui di maturare un sentimento di solidarietà  in rapporti traspa-
renti con gli altri. Nel 1776 Adam Smith scrisse La ricchezza delle nazioni, seguita dalla Teoria dei sentimenti morali, e concepì le due opere come un tutt’uno. Il capitalismo non può essere disgiunto né dal senso né dai princìpi morali.
Prima della secolarizzazione della società  moderna, la religione assolveva al compito di dare un senso alla vita delle persone esprimendo valori e princìpi morali in grado di tenere unite le comunità . Più di un secolo fa il grande sociologo francese Emile Durkheim sostenne che, contestualmente al declino della religione, il suo ruolo tradizionale di fonte di significato sarebbe stato sostituito dalle organizzazioni capitalistiche. Oggi il lavoro e le organizzazioni contribuiscono in modo ancor più decisivo a definire il nostro status sociale e lo scopo della nostra esistenza come individui.
Tuttavia, le teorie dominanti in materia di organizzazione aziendale non riconoscono questo vincolo, bensì pongono l’accento sulla razionalità  dell’individualismo economico intesa come principio morale valido in sé, senza un contesto sociale di riferimento. E quando gli attori imprenditoriali e istituzionali negano la necessità  di uno scopo di più ampio respiro, quel vuoto viene riempito dal mantra dell’efficienza, della flessibilità  e della razionalità  degli uomini e delle donne economici, il che alimenta un senso di alienazione, disadattamento e angoscia. A fronte di questo svuotamento morale, la corsa sfrenata al benessere materiale rimane l’unica fonte di senso: di qui la caccia a profitti sempre più esorbitanti. In seno alla cerchia dei super ricchi – dai Ceo alle star del football – nessuno ormai può spendere tutti i milioni che percepisce in busta paga; quel che la società  non può concedersi, invece, è un segno di valore.
Troppo spesso le organizzazioni moderne non riescono a mettere gli individui in condizione di dare un senso al proprio lavoro. Perché ciò sia possibile, le stesse organizzazioni devono esprimere valori e finalità  in cui i lavoratori si identifichino, in un certo senso legittimando e affermando il loro legame con le comunità  di appartenenza e con l’universo morale a cui fanno riferimento. Con la deificazione del profitto e del valore per gli azionisti quali obiettivi strategici d’impresa, tuttavia, la “creazione di senso” va perduta.
L’appello per un capitalismo responsabile lanciato lo scorso anno da Ed Miliband è imperniato sull’idea che le organizzazioni moderne debbano trovare un equilibrio tra l’imperativo del profitto e la responsabilità  sociale. Miliband auspica un capitalismo più virtuoso, improntato all’impegno per un’impresa produttiva, non al business fine a se stesso. E traccia una netta distinzione tra il “produttore”, il “predatore” e l’“asset stripper” (chi acquisisce una società  per poi frazionarla a fini speculativi,
ndt).
All’inizio il suo messaggio è stato oggetto di critiche e commenti scettici; nove mesi dopo, sono sempre più numerosi gli imprenditori e i politici che cercano a modo loro di dire le stesse cose.
All’atto pratico, tuttavia, non è così semplice tracciare una linea di demarcazione tra capitalismo buono e cattivo, poiché molte organizzazioni rivestono i loro gretti interessi commerciali con pretese finalità  sociali di ampio respiro. Il caso Enron, per esempio, ha fatto balzare la questione dell’etica e della responsabilità  sociale in cima alle priorità  delle imprese. Prima dello scandalo, la responsabilità  d’impresa era un principio “a combustione lenta”, propugnato da molti ma praticato da pochi. Oggi è al centro di preoccupati dibattiti nelle sale di consigli di amministrazione europei e statunitensi. La governance aziendale, il ruolo dei direttori non esecutivi, la
correttezza delle convenzioni in materia di revisione contabile e il codice etico dei lavoratori sono oggetto di un’analisi più attenta che mai.
Si tratta di una sfida, ma anche di un’opportunità . Oggi le aziende hanno la possibilità  senza precedenti di riconquistare il ruolo di fonte di motivazione e, in quanto tali, di diventare parte della soluzione anziché del problema. In virtù del sempre più evidente valore pratico dell’impresa responsabile, occorre apprendere nuove regole del gioco che consentano alle organizzazioni di operare in modo tale da promuovere l’equità , la coesione sociale e il benessere – e, non ultimo, la sostenibilità  nel lungo periodo.

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