Il Quirinale e la road map per evitare l’ingorgo
ROMA — È una torturante spirale di illazioni, speculazioni e polemiche cominciata il 24 marzo scorso. Quel giorno la Rai mise in onda una chiacchierata (registrata in gennaio) di Giorgio Napolitano con un gruppo di studenti in visita al Quirinale. Nell’incontro, alla domanda se pensasse di ricandidarsi, il presidente della Repubblica rispose che «no», che era necessario «passare la mano», che si facessero avanti «altri» e che «dal maggio 2013» sarebbe stato un «privato cittadino». Un chiarimento al quale nelle settimane successive aggiunse, e l’ha ripetuto infinite volte, che per ciò che dipende da lui (e, a norma di Costituzione, da lui dipende) l’orizzonte della legislatura è e resta «la scadenza naturale», il 29 aprile.
Bene, per quanto si sia sforzato di sgombrare ogni dubbio sulle sue intenzioni — anche personali —, le questioni incrociate di voto politico, scelta del successore sul Colle e incarico al premier hanno rinfocolato negli ultimi sei mesi un’estenuante prova di forza tra i leader dei partiti. I quali, almanaccando confusamente su convenienze e penalizzazioni di questo accavallarsi di date (non per nulla lo si chiama «ingorgo istituzionale»), riaggiustano di continuo i propri calcoli elettorali condizionando lo stesso confronto in aula. Con l’effetto di tenere sotto stress il governo e il Paese.
Tutto inutile. Perché il capo dello Stato la road map di come procedere l’ha in mente da tempo. E, nonostante siano state ipotizzate alternative per molti versi attendibili, è così lineare da sgombrare il campo da congetture o ipotesi di manovre. Calendario alla mano, la sua sequenza prevede lo scioglimento delle Camere il 16 febbraio 2013 in maniera che — in una forbice cronologica compresa tra i 45 e i 70 giorni concessi da norme e prassi — sia possibile aprire le urne in una data che permetta alle neoinsediate assemblee di nominare il dodicesimo presidente intorno al 20 aprile. Il che, se si tiene conto della Pasqua, dovrebbe portarci a votare nel primo fine settimana di aprile, il 7 e l’8.
Completato questo passaggio, il Parlamento avrà a disposizione 20 giorni per convocare la prima riunione, nella quale (come primo adempimento, per una ragione funzionale) devono essere eletti i presidenti di Camera e Senato e, subito dopo, gli uffici di presidenza. Poi, entro sette giorni, devono essere formati i gruppi, che sono gli interlocutori naturali dei presidenti nei momenti istituzionalmente sensibili. Uno scadenzario che, volendo, potrebbe essere accorciato, anche se l’esperienza insegna che ciò non accade mai, perché quel lasso di tempo serve a far maturare gli accordi per i gruppi, per le commissioni, ecc. Insomma: soltanto quando sarà decorso quel termine le assemblee passeranno a votare per il nuovo capo dello Stato, e potranno dunque farlo prima che scada il mandato di quello attuale. E sarà quindi il nuovo presidente, una volta insediato, ad avviare le consultazioni per tenere a battesimo il futuro governo.
Uno scenario «vincolato dai tempi tecnici», come lo definisce Napolitano. Uno sbocco ovvio, dal punto di vista del rispetto delle regole. Al quale, ragionando accademicamente (avvertiamo però che questo non fanno al Quirinale), sarebbe possibile opporre un’unica variante. Se ad esempio lievitasse un’intesa preventiva — e appunto temporanea — con tutti i maggiori gruppi politici, ossia l’attuale maggioranza, per concedere all’attuale premier un supplemento di tempo, in maniera di fargli completare la propria missione anticrisi. In un caso del genere nessuno avrebbe aver nulla da ridire se Napolitano, anche un attimo prima di congedarsi, (ri)desse lui l’incarico a Monti. Ma è un’ipotesi di scuola che, oltre a violare le stessi basi del galateo istituzionale, potrebbe suggerire a qualcuno l’idea che il capo dello Stato voglia proiettare sul futuro, quando non sarà più in carica, la propria influenza. Pertanto appartiene alla sfera dell’irrealtà .
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