by Sergio Segio | 12 Settembre 2012 8:03
Orbene, poiché tutto lascia presagire che l’esito della partita sia largamente predeciso, bisogna sparigliare le carte. Come nel gioco della scopa. Non che lo spariglio sia necessariamente una mossa estemporanea. Tuttavia, di solito è la scelta di un giocatore in difficoltà .
Può darsi che spetti proprio ai giuristi del lavoro prendere l’iniziativa. Ma non nella veste (che tradizionalmente prediligono) di consiglieri del principe di turno – che peraltro non c’è più – bensì in quella (meno redditizia) di costruttori dell’ambiente culturale ove si elaborano le tecniche regolative che i decisori politici adotteranno, se vorranno o potranno.
Per tentare di rompere l’inerzia della partita, dicevo, devono sparigliare. Il che, peraltro, non richiede sforzi eccezionali. Basterebbe ricordarsi che per vedere quello che abbiamo sotto il naso serve uno sforzo costante. Insomma, per elaborare la proposta di ridurre ad unità il lavoro disperso, frantumato, declinato al plurale è sufficiente prendere atto che esso è sempre eguale a se stesso, perché tuttora è (e resterà ) ciò che non ha mai smesso (né smetterà ) di essere: il passaporto per la cittadinanza, nonché l’unica risorsa di cui dispone la stragrande maggioranza della popolazione per guadagnarsi da vivere onestamente.
Per questo, non si reinventa il lavoro facendone una componente della categoria dei beni comuni – comuni nel senso che l’interesse alle loro modalità d’uso ed allo scopo per cui sono usati è condiviso dall’intera collettività . Semplicemente, lo si riposiziona nella prospettiva meno distorcente. Né mercantilistica né religiosa. E’ quella che permette la riunificazione del lavoro in quanto lo considera un bene che – come l’acqua, l’aria, l’ambiente – è economicamente valutabile e tuttavia appartiene ad una sfera distinta da (e superiore a) quella meramente individuale del suo compratore e del suo venditore.
Difatti, non è entrato nella storia giuridica per farsi avvolgere nel cellophane delle categorie tecnico-concettuali del diritto dei contratti tra privati appiattito sulla logica mercatistica. Vi è entrato per invocare una speciale protezione contro la voracità del profitto. Anche se ciò non autorizza a dire che quello del lavoro sia un diritto che dal lavoro prende nome e ragione.
In realtà , non può essere del lavoro se non nella misura compatibile con la sua matrice compromissoria e quest’ultima esige che il diritto del lavoro sia, al tempo stesso, un diritto sul lavoro. Come dire che è strutturalmente ambiguo. Dopotutto, nessun padrone si siede al tavolo contrattuale per trattare la propria estinzione.
Il divieto che il lavoro non può trasgredire è stato compiutamente formalizzato soprattutto durante il fascismo mussoliniano e franchista. Ma il divieto è senza tempo. Non a caso la tendenza a risolvere le ricorrenti crisi dell’economia prestando ascolto alle ragioni del capitale viene solitamente giustificata con l’argomento che in precedenza le ragioni del lavoro ne abbiano avuto anche troppo.
Bisogna riconoscere perciò che il divieto senza tempo che il lavoro non può trasgredire simboleggia una irriducibile subalternità del diritto che da lui prende nome.
E’ senz’altro vero che, così, il lavoro esibisce la sua debolezza. Ma è sicuro che non gli conviene negarla, come è accaduto in Italia dove la scelta di privatizzare il diritto sindacale e del lavoro non ha mai nascosto un pregiudizio sfavorevole all’intervento dello Stato. Infatti, se è vero che senza la libertà dei privati il lavoro si trova nella pratica impossibilità di modificare a proprio favore l’equilibrio del rapporto di forza col capitale, è altrettanto vero che la libertà dei privati da sola non basta per mettere in sicurezza le conquiste ottenute, farne un punto di non-ritorno ed insieme di ri-partenza.
Come dire che il lavoro non può fare a meno del presidio che soltanto lo Stato è in grado di attrezzare, con le sue leggi ed i suoi apparati coercitivi e di controllo. Perché, per il lavoro, «meno Stato, più mercato» significa che la politica produrrà leggi al servizio del capitale.
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