Il Cipputi cinese blocca l’iPhone5
PECHINO. “Chiuso”. Questo avviso, in Cina, è incomprensibile. All’alba di oggi però la direzione Foxconn l’ha fatto affiggere, un francobollo rosso, sull’immenso cancello grigio dello stabilimento di Taiyuan, città -industria modello tra le montagne dello Shanxi. Una fabbrica sbarrata e inaccessibile, improvvisamente alla deriva nel silenzio e circondata dalla polizia privata del signor Terry Gou, magnate di Taiwan. Un evento economicamente inconcepibile: perché il cartello “chiuso” campeggia, come un vecchio certificato di malattia, sullo stabilimento- simbolo del successo di Pechino, icona della modernità globale. All’esterno solo gli agenti in divisa nera, armati e muti. Dentro, 80 mila operai nelle loro tute blu, consegnati nei dormitori e isolati dal mondo. Questo blindato carcere-fortezza, anonimo tra centinaia di altri capannoni senza insegne, è la fabbrica che produce l’oggetto più desiderato del pianeta: l’iPhone 5, l’ultimo telefono-gioiello a marchio Apple, capace di fondere Oriente e Occidente nell’attesa notturna davanti a uno “store”. Nessuno si sognerebbe mai, in Cina meno che ovunque, di fermare nemmeno per un secondo la catena di montaggio che muove ciò che resta del consumo sul pianeta.
Invece a Taiyuan è successo e in Asia si sono segnati il 24 settembre sull’agenda: un giorno di chiusura alla Foxconn, fornitore Apple, danni da malore e fine dell’epoca consegnata alla storia con l’etichetta “miracolo cinese”. A sudovest di Pechino si consuma però qualcosa di più di un inedito «sciopero punitivo » promosso dal padrone. Sembra compiersi oggi, alla vigilia del congresso che deciderà i prossimi dieci anni di comunismo nella nuova superpotenza del mondo, il destino dell’eroe che per trent’anni ha sostenuto il mito della “globalizzata crescita infinita”. Anche il “Cipputi made in China”, spina dorsale della nostra Dolce Vita, si ribella e l’incubo del contagio, il virus dei diritti che pare consumare il capitalismo senza lavoro, per la prima volta spaventa il potere liberista degli eredi di Mao Zedong.
Dietro un cancello chiuso, questa notte, si è combattuta così l’ultima battaglia della guerra invisibile che da mesi sconvolge la Cina, ribollente terminal della delocalizzazione di Europa e Usa. Duemila operai hanno cercato di aggredire manager e poliziotti Foxconn, distruggendo impianti, dormitori e sale-mensa. La ribellione è scoppiata alle dieci di notte e solo all’alba le squadre dei dipendenti, sotto la minaccia delle armi, hanno accettato di distendersi sulle brande. Per l’azienda si è trattato di una «rissa degenerata in sommossa», nata a causa di «rancori etnici tra bande rivali formate nei reparti». A Taiyuan si conferma invece la versione circolata sul web. Gli operai del turno di notte sono insorti dopo che un loro compagno è stato picchiato perché «troppo debole per fare altri straordinari ». Bilancio non ufficiale: 40 feriti e centinaia di arresti.
L’Occidente affonda perché, prima che ai consumi, ha rinunciato alla garanzia del lavoro. Il sistema-Cina rischia di implodere perché, per consumare, non può esportare anche chi lavora in condizioni disumane. La rivolta e la chiusura nella fabbrica cinese dell’iPhone, coperta dalla censura e negata dalle autorità , non incarna così un paradosso ma rivela il cortocircuito del nuovo schiavismo dell’Asia, su cui Europa e Usa continuano a chiudere gli occhi. E gli stabilimenti cinesi della Foxconn,
terzista di multinazionali come Apple, Motorola, Microsoft, Nokia, Hp, Dell, Ericsson e Sony, diventano la nuova frontiera di rivendicazioni storiche a cui lo stesso Vecchio Continente sembra aver abdicato.
La ragione è semplice. La terza generazione di operai cinesi, nata da operai partoriti da operaie, non accetta più di morire giovane alla catena di montaggio per pagare i debiti del capitalismo occidentale e lustrare la gloria del comunismo di Pechino. E la rivolta di questa notte condivide la scintilla con le oltre 100 mila sommosse taciute che nel 2012 scuotono la seconda economia del mondo: paghe da fame, turni di lavoro massacranti, straordinari obbligatori, reclusione in fabbrica, maltrattamenti fisici e umiliazioni morali da parte dei superiori. Al dramma meno ignoto, si somma però oggi anche in Cina una nuova realtà : aziende che chiudono, posti di lavoro che saltano, mutui impossibili da onorare, migranti senza diritti, figli disoccupati, lavoratori che pretendono gli stessi diritti dei loro colleghi stranieri, contattati grazie al potere della Rete. Europa e Usa non consumano, le esportazioni si fermano, altri Paesi-fabbrica emergono e il modello-Cina collassa.
Il virus, anche alla Foxconn, viene chiamato “China plus one”. I monopolisti della produzione tengono un piede nel più grande mercato del mondo, ma spostano almeno uno stabilimento all’estero, nel Sudest asiatico, in Africa, in America Latina, o nell’ex Europa dell’Est. Il business del partito-Stato, patrimonio delle masse, si trasforma nell’affare di un pugno di privati prossimi alla corruzione del potere e inaugura il «nomadismo del distretto industriale». La fabbrica va, di stagione in stagione, dove il profitto per azionisti e sponsor è massimo. Ci si sposta di mille chilometri, si cambia regione, oppure si salta in un’altra nazione. «Vaporizzare la produzione — dice l’economista Zheng Yusheng, della Business School di Shenzhen — rafforza la proprietà . Se sei mobile e ovunque, operai e sindacati sono morti. È la globalizzazione ai tempi della crisi: lavora chi si adegua, gli affari perdono ogni valore sociale e le condizioni, anche in assenza di profitti, vengono decise dal management».
Alla Foxconn, che ha appena approvato un investimento da 500 milioni di dollari per aprire il quinto stabilimento in Brasile, il bilancio degli ultimi due anni è tragico: 16 operai morti suicidi, studenti assunti in nero per fronteggiare i picchi delle ordinazioni Apple, vita lavorativa media 15 anni, operai costretti a pulire le latrine se rifiutano di fare 80 ore di straordinari al mese, infortunati sul lavoro obbligati a dimettersi, lettera di assunzione con “divieto di suicidio”. I consumatori Usa avevano minacciato il boicottaggio dei suoi tesori hitech. A indignare il popolo della Rete, l’annuncio di una maxi-meccanizzazione tagliacosti. Slogan: «I robot non si buttano dal tetto, se danno problemi basta spegnerli».
È nata tra gli oltre un milione di operai Foxconn rinchiusi nelle fabbriche di Shenzhen, Longhua, Foshan e Chengdu, la rivolta di questa notte a Taiyuan. Una guerriglia da giro del mondo, ma certamente non un caso isolato. La ribellione del “Cipputi cinese” dilaga anche nel Guangdong e nello Zhejiang, a Pechino e a Shanghai, nella nuova terra promessa di Chongqing e nel distrettoauto di Changsha. Per il potere rosso, fondato su soldati, contadini e operai, è uno shock: o aumenta i salari e impone nelle fabbriche le basi di diritti universali, perdendo competitività nel nome della crescita dei consumi interni, o sacrifica la stabilità in cambio dell’export. Nella potenza post-proletaria che comanda il secolo, verranno prima le vite degli operai, o gli indici dei mercati finanziari? È questa la domanda sospesa sulla fucina anonima dell’iPhone 5 nello Shanxi, per la prima volta ferma causa rivolta e avvolta da un’altra notte di censura. Quesito inaudito, nella Cina dei misteri dove nemmeno la data del congresso d’ottobre può essere rivelata. Ma interrogativo essenziale anche nel nostro mondo antico afflitto dal segno meno, ormai esposto al vento freddo del lavoro tradito già nella sua culla-tomba di Taiyuan.
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