Ikea, Dinasty alla svedese il fondatore contro i figli

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MILANO — Il piccolo fiammiferaio, alla tenera età  di 86 anni, non molla ancora il colpo. Ieri sembrava il giorno giusto per il suo De profundis (professionale, per carità ) e per mettere la parola fine al tormentone sul passaggio di testimone al vertice dell’Ikea «Purtroppo non potremo più contare in cda sui consigli di Ingvar Kamprad», ha detto in un’intervista Goran Grosskopf, presidente della cassaforte che controlla il colosso svedese, annunciando in sostanza l’addio del fondatore del gruppo.
Aveva fatto i conti senza l’oste. Il sanguigno Kamprad – evidentemente spiazzato da un annuncio troppo anticipato – l’ha costretto a stretto giro di posta a un imbarazzante dietro front («per fortuna godremo ancora dei sui consigli», ha balbettato Grosskopf) e poi ha chiarito la situazione alla sua maniera: nessuna dichiarazione ufficiale – in quasi un secolo non ha mai rilasciato un’intervista – ma un algido comunicato firmato in prima persona in cui annunciava un cambiamento manageriale ai vertici del gigante dei mobili. Un modo (il suo) per dire che a Stoccolma comanda ancora lui. E che i tre figli Peter, Jonas e Mathias, arrivati ormai alle soglie della pensione, dovranno aspettare ancora un po’ prima di prendere le redini dell’impero da 130mila dipendenti e 30 miliardi inventato dal nulla dal padre.
La staffetta, dicono tutti, è in realtà  solo questione di tempo. E il giallo di ieri è forse solo frutto di una piccola fuga in avanti. La certezza però è una: quando, come (e se) lascerà  l’Ikea, Kamprad lo deciderà  da sé e non se lo farà  preannunciare certo a mezzo stampa. Anche perché a meno di tre lustri dal traguardo del secolo, il manager scandinavo ha ancora il perfetto controllo della situazione. Un esempio? Poche settimane fa, tanto per mettersi da parte un gruzzoletto per la pensione, ha organizzato un vorticoso giro del marchio del gruppo tra le sue numerose scatole societarie nei paradisi fiscali staccandosi un assegno di 6 miliardi di euro come argent de poche per uso personale.
Nessuno – al di là  dei metodi esentasse – può dire che non se li meriti. Kamprad ha iniziato a lavorare da bambino vendendo fiammiferi porta a porta in bicicletta tra i vicini. Uno zolfanello alla volta ha ammucchiato una fortuna che attraverso il marchio Ikea, acronimo delle sue iniziali più quelle della fattoria dove è nato (Elmtaryd) e del villaggio più vicino, si è moltiplicata per migliaia di volte. Il primo negozio a fianco a casa è diventato nel 1948 un business di vendita per corrispondenza, fino al maxi-conglomerato di oggi che serve 655 milioni di persone l’anno in ogni angolo del globo e che ha regalato al suo fondatore un posto fisso nella classifica degli uomini più ricchi del mondo, con un tesoretto che balla tra un minimo di 8 e un massimo di 25 miliardi. Unica nube: l’iscrizione durante alla guerra a un movimento fascista svedese («il più grande errore della mia vita», ha ammesso lui) che gli è costato un dossier dal titolo “Nazi” negli archivi dei servizi segreti di Stoccolma.
Il successo, questo è sicuro, non gli ha dato alla testa. La leggenda vuole che ricicli i filtri del thè, si imboschi un po’ di bustine di zucchero ogni volta che passa al bar, compri i regali di Natale dopo il 25 dicembre per risparmiare e viaggi su una vecchia Volvo 240. La certezza è che vola rigorosamente in economy, incita i suoi dipendenti a usare entrambe le facciate dei fogli di carta e che il successo della sua creatura è figlio naturale di questa austerity, visto che i prezzi medi dei prodotti sono calati in media del 2-3% ogni anno.
Questa maniacale attenzione ai costi è confermata dalla scelte fiscali dell’attentissimo Mister Ikea. Il controllo del gruppo si perde nei meandri di scatole offshore tra Lussemburgo, Vaduz e Isole Vergini. Gli agiografi dicono che si tratta di charities di beneficenza, ormai più ricche di quelle di Bill e Melinda Gates. Può darsi. Di sicuro (traffici sul marchio a parte) Kamprad ha sviluppato una sorta di singolare allergia alle tasse. Da quarant’anni vive a Epalinges, nel Canton Vaud in Svizzera, dove versa al fisco la bella somma, si fa per dire, di 150mila euro l’anno (oltre a 10 milioni di franchi regalati a fondo perduto al Comune per alloggi popolari). Nel verde della Confederazione lo aspettano come ospite fisso quando andrà  davvero in pensione. Chi lo conosce davvero dice che probabilmente arriveranno prima (a godersi un ricco assegno previdenziale) i suoi tre figli.


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