I tuareg e la difficile partita dell’indipendenza

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La retorica del governo centrale di Bamako celebrava questi due eventi come facce di una stessa medaglia: l’antica città  del nord, abitata da tuareg, arabi, peul e songhai, capitale culturale tutelata dall’UNESCO e l’orgoglio dell’autonomia politica del Mali erano patrimonio comune di uno dei pochi stati considerati democratici nel continente. A due anni di distanza, la fragilità  di una costruzione statale provvisoria è emersa con forza, complice la corruzione del governo dell’ex presidente Touré e la permanenza di fratture culturali, sociali e etniche che hanno continuato a attraversare gli stati post-coloniali dentro e oltre confini creati a tavolino. Complici, naturalmente, persistenti interessi geo-politici.

Hado Oubana è arrivato in Italia nel 2000 dal nord del Niger. “Non ho lasciato per la guerra – racconta – ma alcune delle famiglie arrivate negli ultimi anni si”. Hado è un kel tamasheq, un parlante del tamasheq, la lingua che con diverse sfumature unisce berberi in tutto il nord Africa. Fra di loro i così detti tuareg, berberi del deserto, storicamente nomadi nei territori del nord Mali e Niger, nel Burkina Faso, nel sud dell’Algeria e della Libia e nel Ciad. Insieme a altri connazionali Hado ha creato un’associazione, Il Mondo Tuareg, che riunisce le 6 famiglie tuareg residenti in provincia di Pordenone e gira il nord Italia per far conoscere le tradizioni tamasheq. “Siamo in 38 e siamo la maggiore comunità  tuareg in Italia, ma oggi, dopo la guerra in Libia e la fuga di migliaia di persone, in Italia i tuareg sono almeno settanta, soprattutto nel nord ma anche alcuni a Roma, Bari e in Calabria”. Sulla situazione nel Mali non ha dubbi. “La lotta del Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad (MNLA) è una lotta legittima: nell’Azawad [nord Mali, ndr] come nel nord Niger, lo stato è assente da sempre, non c’è alcuna sicurezza personale né tanto meno economica per i tuareg come per le altre popolazioni che abitano la regione”. D’altra parte – aggiunge Hado – “lo stato tuareg esiste già : è il deserto. Solo la spartizione post-coloniale ha diviso i kel tamasheq in sei stati”.

L’Azawad, così i tuareg chiamano la regione desertica del nord Mali che include le province di Gao, Kidal e Tomboctou, è stato proclamato stato indipendente il 6 aprile 2012 durante un’assemblea del MNLA, movimento politico che raccoglie l’eredità  di gruppi armati che dagli inizi del ‘900 si sono battuti per il diritto all’autodeterminazione e all’autogoverno dei berberi, dando vita a numerose rivolte, le ultime nel 2009. Dopo 3 mesi di combattimenti e un colpo di stato militare, che il 22 marzo destituiva il governo centrale sostituendolo con un comitato provvisorio, gli indipendentisti sostenevano di avere il controllo di tutto l’Azawad. Un controllo che però, secondo le poche fonti internazionali presenti nel nord del paese, è illusorio e instabile e ha esposto la popolazione civile a episodi privazioni e violenze. Alla fine di maggio trapela infatti la notizia di un accordo del MNLA con Ansar al Dine, gruppo armato fondamentalista, in vista della proclamazione di uno stato islamico dell’Azawad.

Vermondo Brugnatelli, docente all’università  di Milano, è fra i massimi esperti in Europa della lingua e della cultura berbera, attivista e fondatore dell’associazione culturale Berbera. “Ansar al Dine – spiega – è un movimento ambiguo: fondato da Iyad Ag Hali, già  leader delle ribellioni tuareg dei primi anni ’90, era sostenuto da alcune tribù tamasheq che si considerano discendenti di illustri marabutti o addirittura degli ansar, i concittadini del profeta Mohammed. Il MNLA ha cercato di usare in modo strumentale il gruppo per ottenere un maggiore controllo del territorio, per poi prendere le distanze non appena è emerso come fosse più interessato a un’islamizzazione del Mali che all’indipendenza dell’Azawad”. Il vero problema, sostiene però il professore, sono i gruppi di ispirazione qaedista e salafita, già  protagonisti di attentati, rapimenti e al centro di una rete di traffici di stupefacenti, merci e persone in tutto il Sahel. “Da diversi anni, con la complicità  del governo di Bamako e di altri governi arabi e europei, l’Azawad era lasciato in mano a questi gruppi, MUJAO e AQMI in testa, organizzazioni a mio giudizio “parassite” della rivoluzione tuareg. Questo aveva contribuito a creare un clima di scontento da parte di tutte le comunità  del nord, non solo dei tuareg”.

Oggi l’Azawad è percorso da conflittualità  continue fra MNLA e altri gruppi armati, mentre l’esercito maliano, fuggito nel sud, attende direttive e rinforzi. A giugno la sede del governo provvisorio del MNLA a Gao è stata attaccata e in due mesi le tre città  del nord sono state occupate dai gruppi qaedisti, che controllano la popolazione tramite norme severissime e punizioni esemplari. L’iniziale tentennamento dei tuareg rispetto ai rapporti con i gruppi fondamentalisti ha contribuito all’isolamento internazionale del movimento, che accanto agli sforzi militari per riconquistare posizioni nel nord, sta mettendo in atto una strategia diplomatica rivolta in particolare a Europa e Stati Uniti.

Alla fine di luglio, durante un importante congresso a Ouagadougou, in Burkina Faso, Mossa Ag Attaher è nominato coordinatore dell’azione diplomatica dell’Azawad per l’Europa. Ag Attaher, attivista e animatore di comunità  con buoni contatti in Belgio, già  dalla primavera girava il continente per “spiegare il progetto politico del MNLA”. “Negli ultimi mesi – racconta – siamo stati ricevuti da numerose rappresentanze diplomatiche e da parlamenti di alcuni paesi europei, non ultimo il parlamento comunitario (che già  aveva adottato una risoluzione favorevole all’approccio diplomatico, il 20 aprile). Continueremo a parlare per mettere in risalto la differenza fra il nostro movimento e i gruppuscoli armati presenti nell’Azawad, per invocare una soluzione politica e non militare e per renderci disponibili per una negoziazione con il governo del Mali”. Arrivato in Francia a fine agosto dopo una lunga visita sul campo nella regione autonomista, Ag Attaher si dice “preoccupato per le grandissime sofferenze della popolazione civile. Sono stato nei campi rifugiati e ho notato che le organizzazioni internazionali non sono potute intervenire in maniera efficace”.

Sulle responsabilità  dei militari del movimento, protagonisti di violenze secondo un rapporto di Human Rights Watch e del coinvolgimento di minori come soldati secondo UNICEF, preferisce non soffermarsi. È il momento di lavorare per un’immagine positiva del movimento e della causa tuareg. “La liberazione e il riconoscimento dell’Azawad devono portare a uno stato laico in cui i diritti di tutti sono garantiti. Per questo nel governo provvisorio, nominato a fine luglio, e nello stato maggiore del MNLA, sono presenti rappresentanti delle altre comunità  dell’Azawad, non c’è una dimensione etnica”. Mentre la strategia militare del MNLA rimane per ora segreta, “per non far arrivare informazioni al nemico”, il portavoce del movimento non nasconde l’entusiasmo per un progetto che “vede coinvolta tutta la diaspora tuareg e i berberi del nord Africa”.

Il progetto autonomista ha infatti un richiamo fortissimo per tutti i kel tamasheq, i cui diritti culturali e sociali sono stati calpestati da molti stati. “Per loro – sottolinea Brugnatelli – i tuareg rappresentano i “berberi puri” linguisticamente e culturalmente e per questo c’è un’adesione incondizionata alla causa dell’Azawad, assistiamo a un vero e proprio risveglio dell’identità  berbera”. Un risveglio da ascoltare, anche perché i tuareg, come gli altri gruppi minoritari del nord Mali, “hanno subito una seconda colonizzazione da parte della maggioranza di lingua bambara, e nonostante le periodiche rivolte non sono mai stati ascoltati. Hanno una cultura antica e profondamente anti-fondamentalista, in cui le donne sono anzi centrali e per questo sarebbero un ottimo bastione contro il fondamentalismo”.

Il fascino della cultura tuareg, che pur essendo basata sulla pastorizia nomade possiede secondo il professore di Milano una “raffinatezza unica e una specificità  dovuta all’influenza del deserto e della sua vita”, rende più difficile giudicare con distacco una situazione intricata. Rimane evidente che nella fascia saheliana si gioca una partita geopolitica decisiva per il futuro del continente e per gli equilibri precari dell’Africa. Con il rischio concreto e metaforico, come evidenzia Hado Oubana a proposito dei giacimenti di uranio nel nord del Niger “che i francesi e altre potenze si prendano l’uranio, lasciando a noi solo la radiazioni nocive”.


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