I suoi libri aperti per una generazione in movimento
A confermare il segno costante della sua vita: la ricerca profonda e insieme l’essere schivo, il non apparire. Perché il poeta è un tramite che attraversa il tempo con la sola misura del verso e dell’andare a capo, costituendosi di tutte quelle scorie e, come un testimone indomito, passa la consegna con amore e irrequietezza. Le sue certezze, quelle sole che vogliamo chiamare « versi roversi », le sue battaglie restano come un sospiro e un fiato che alimenta ancora speranza e disperanza. Tutte ancora da respirare. È stato Roberto Roversi il poeta del tempo che ha remato per tutta l’esistenza contro la principale deriva dei giorni che ci è dato vivere: la perdita di memoria del passato e soprattutto del passato prossimo, per dirla con Franco Fortini. È appartenuto alla generazione che, a metà degli anni Sessanta, ha scoperto la «festa crudele», vale a dire il trionfo della trasformazione della società in spettacolo. A questo ha fatto fronte partecipando ad una de-sacralizzazione della poesia. Fin dalla decisione di non pubblicare più per case editrici ufficiali, ma solo per fogli o riviste autogestite. Fu una folgorazione quando nel 1970 ci arrivarono le pagine delle Descrizioni in atto , rilegate con il cartone da imballaggio e ciclostilate nella sua libreria, «composte dal 1963 al 1969, di cui molte inedite, e adesso raccolte per essere liberamente mandate». Era il libro aperto che parlava ad un’intera generazione ancora in movimento. Per arrivare, dopo la stagione letteraria delle storiche riviste di «Officina» e «Rendiconti», ai manifesti della Tartana degli influssi , organizzando le scritture «basse» che provenivano da luoghi di dolore, solitudine, carcere e follia. A volte facendosi anche canzone. Più vicino all’immagine del poeta-artigiano che del vate conclamato nella rincorsa tragicomica a ricoprire spazi nella storia letteraria e nelle gerarchie accademiche, Roversi ha semplicemente costruito. Dalla bottega della Libreria Palmaverde ha aperto i battenti dell’ascolto ad almeno tre generazioni. L’ascolto umile, confidato nello scambio diretto, è il bene più prezioso per la presa di parola poetica. Non aveva bisogno di apparire « novissimo », di forzare la gabbia della scrittura, di assumere forme di meta-letteratura tra passato e presente. Nelle sue opere, pensiamo alla prova più preziosa di Dop o Campoformio , c’è l’incanto nuovissimo dell’attraversamento del tempo, anche se nemico. E si afferma la sfida verso il presente e l’attualità . Fino ad anticipare, nell’iconografia ufficiale del Belpaese assunta come quaderno bianco tutto da riscrivere, la visione della lunga notte italiana che dura tuttora. L’accadimento storico – dalla Resistenza alle stragi naziste, dalla Bomba atomica di Hiroshima ai bilanci dell’Eni e al disastro del Vajont, fino alla visionarietà di Unterdenlinden per un Hitler che potrebbe tornare – e l’evento delle pagine di giornale stanno nella sua poetica, corrispondono alla composizione e alla domanda di senso. La sua è stata un’opera aperta dove forma e vita non sono state mai giustapposte. Ha cercato al contrario la contemporaneità . Per sottrarre tempo al passato ed inverare il presente. Scrive in Dopo Campoformio : «…Scomparvero nelle piramidi di fuoco./ Quel tempo sporcò di melma le mani/ dei sopravvissuti, dai gelidi cancelli/ precipitarono ancora ancora/ le mandrie nei macelli – / belare straziava la lama dei coltelli/ in mano ai giovani carnefici. / Non è questo che voglio: ricordare./ No ritornare a quei lontani/ anni, a quei tempi lontani./ I cani erano più felici degli uomini./ I miei versi sono fogli gettati/ sopra la terra dei morti./ È oggi che dobbiamo contrastare». Davvero ci riguarda.
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