I NOSTRI MITI

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In che modo sentimenti, passioni, emozioni, affetti entrano nel recinto nobile della disciplina storiografica? L’amore, in sostanza, si può storicizzare? «Non solo si può, ma si deve», risponde Luisa Passerini, studiosa dalla fisionomia singolare, una delle poche ad essersi avventurata in un territorio impervio, tra molti riconoscimenti internazionali e non altrettanti nazionali. Classe 1941, una lunga esperienza tra l’Istituto Europeo di Firenze e l’Università  di Torino, un nome importante per la cultura femminista, è ora in partenza per New York dove tra qualche settimana comincerà  alla Columbia University un corso sull’amore. «Sì, in Italia ci sono difficoltà  maggiori. La storia culturale ha da noi poca cittadinanza ». I suoi libri – come Storie d’amore e d’Europa, L’Europa e l’amore – intrecciano immaginario amoroso e identità  culturali nel corso del Novecento, con radici che risalgono alla tradizione cortese e all’amor romantico, su cui Passerini ha molte cose da dire. Fuori dai sentieri più conosciuti. Come fa uno storico a studiare l’amore? «Noi non possiamo osservare l’amore come istinto “naturale”, il sentimento in sé, ma vediamo sempre delle costruzioni culturali, ossia i discorsi sull’amore. Sono fondamentali due prospettive: quella di lunga durata e quella comparativa». E cosa ha scoperto? «Che sull’amore ci sono molti pregiudizi. Prendiamone uno, quello che mi sta più a cuore: la pretesa esclusività  europea di un certo tipo di relazione, che è quello rappresentato dalla coppia uomo-donna unita da un rapporto paritario. Per un lungo periodo si è ritenuto che questa concezione dell’amore distinguesse il nostro continente dal resto del mondo, segnato nell’Oriente asiatico da una marcata subalternità  femminile. Questo preteso primato si traduceva – talvolta ancora si traduce – in una pretesa superiorità . Se però guardo le cose in una prospettiva comparativa, cambia completamente il quadro». In che modo? «Gli studi antropologici mostrano che sul piano del sentimento d’amore c’è una forte differenza tra l’Eurasia e l’Africa nera, dove il discorso amoroso è molto meno sviluppato». Che cosa intende? C’è poca letteratura? «Esiste un rapporto molto stretto tra amore, discorso amoroso e alfabetizzazione, intendendo con questo termine la cultura scritta. Gli studiosi hanno rilevato che nelle culture africane esclusivamente orali c’erano poche canzoni d’amore, quasi non esistevano». Quindi la scrittura alimenta l’amore. Allora aveva ragione La Rochefoucauld… «Sì, disse che ci si innamorerebbe molto meno se non si fosse mai sentito parlare d’amore. In parte è vero. Se io leggo molti romanzi sentimentali è più facile che mi innamori, perché riconosco le mie emozioni e mi sento legittimato a coltivarle. Però non è vero che in un’altra cultura, sprovvista di una letteratura scritta, nessuno s’innamori: si esprimerà  attraverso il disegno o la musica, oppure con un dono». La letteratura produce sentimento. Ma anche il sentimento amoroso può innescare cambiamenti linguistici. «Il caso dell’antica Provenza è interessante, perché è cultura di transizione tra l’orale e la scritta. Un grande antropologo, Jack Goody, ha detto che l’amore è una potenzialità  psicologica universale, ma questa non s’è espressa ovunque allo stesso modo. Dipende da tante circostanze». Lei ha fatto riferimento all’Eurasia, come a una estesa geografia unita da una concezione simile dell’amore. Questo implica la rottura dello stereotipo secondo cui l’idea che fonda l’amor cortese sarebbe stata un’invenzione esclusivamente europea. «Sì, dalla metà  del XVIII alla metà  del XX secolo molti intellettuali hanno ritenuto che la poesia provenzale rappresentasse l’origine non solo della poesia europea, ma anche di un modo specifico di amare e di definire l’individualità  e la coscienza. Questo è stato poi corretto da chi ha mostrato le diverse influenze. Prendiamo i poemi d’amore prodotti dai beduini della penisola arabica tra il VII e il VI secolo a.C.: anche questi sono fondati sulla irraggiungibilità  della persona desiderata. Non si può escludere che in un periodo successivo – attraverso la Spagna musulmana – gli stessi motivi si siano diffusi fino a innestarsi nella produzione trobadorica». In sostanza il modello ritenuto fondante del sentimento amoroso europeo – ossia la tradizione dell’amor cortese – sarebbe nato in Arabia? «Non lo sappiamo con certezza, ma le influenze e le corrispondenze sono state diverse. Potrei fare anche l’esempio della Storia di Genji, il romanzo giapponese scritto da una dama di corte nell’XI secolo. Anche qui affiora il motivo dell’inaccessibilità  dell’amore». La distanza dell’amata è un tema fondamentale dell’amor cortese. «Sì, là  nascono i termini che permarranno nella tradizione del dialogo amoroso. I provenzali lo chiamavano amor de lohn, amore da lontano, e questa lontananza può essere sociale o geografica. Un motivo che ritroviamo nel romanzo romantico, con l’idealizzazione dell’oggetto amoroso. Ma c’è una fondamentale differenza tra l’amor cortese e quello romantico, inteso come lo intendiamo noi oggi». Cosa vuol dire? «Amore romantico è diventato un’espressione che non fa riferimento specifico all’epoca romantica, ma a un atteggiamento che si pretende universale e che si collega al matrimonio eterosessuale. L’amore cortese non è eterosessuale, un termine che allora non significava niente. La parola omosessuale acquisterà  un significato a partire dall’Ottocento. Nella poesia trobadorica non c’era ancora il legame tra identità  e scelta sessuale». C’erano anche trovatrici donne che cantavano per l’amata. «Non solo. L’amore cortese non esclude la pratica amorosa tra uomini né tra donne. Ma da un certo momento in poi è prevalsa un’interpretazione rigida che ha fatto di questa tradizione letteraria l’epitome delle relazioni eterosessuali. Questo spostamento è corrisposto all’irrigidimento dell’identità  europea». In che modo? «A partire dalla fine del Settecento il soggetto sia dell’identità  europea sia del discorso amoroso diventa un soggetto maschio, bianco e cristiano. E dobbiamo aspettare i movimenti femministi e quelli di liberazione culturale a partire dagli anni Sessanta del Novecento per dire che il soggetto può essere una donna, un ebreo, un nero o un musulmano. Io riconduco questo irrigidimento al fatto che perdiamo di vista i grandi scambi culturali». Ma lei poi riconosce una specificità  alla cultura europea. «Sì, in nessuna cultura come la nostra è stata usata l’idea dell’amore per rappresentare la propria identità . Anche nella cultura classica indiana o cinese ci si innamora, ma questo non è così rilevante per la costruzione della propria immagine». Dai suoi libri si ricava anche l’ostilità  degli europei verso il “flirt”, liquidato come una pratica americana. «Dopo l’approvazione del divorzio negli Stati Uniti, li si accusava di aver distorto l’amore di coppia. E la passione di ascendenza romantica rischiava di essere ridotta a un flirt, ossia a una giocosità  che contrastava con lo spirito originario dell’amore». Questo tratto veniva ricondotto da Denis de Rougemont, l’autore di L’amour et l’Occident, al rapporto con la morte. «Qui ritorna sotto altre vesti il tema dell’irraggiungibilità . Rougemont faceva riferimento al mito di Tristano e Isotta, che si ricongiungono solo nella morte. La fusione si può realizzare solo nell’aldilà , perché non si diventa mai uno, si resta sempre due. Anche nell’estremo sforzo di identificazione, l’individuo rimane un’altra persona, perché in caso contrario si perderebbe la stessa idea di amore». Lei perché ha scelto di studiare questo tema? «Oggi alcuni stereotipi sono venuti meno, ma c’è ancora tanto lavoro da fare. Mi piace pensare che le mie storie possano contribuire a stemperare molte rigidità ».


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