Gran raduno in Senato per difendere gli «scatti» di stipendio
Non soffrono solo i minatori del Sulcis. Anche i dipendenti del Senato sono sul piede di guerra: temono vengano tolti loro gli scatti automatici in busta paga aboliti per tutti gli altri impiegati pubblici 20 anni fa. Automatismi che ancora oggi consentono a Palazzo Madama, nell’arco della carriera, perfino di quintuplicare lo stipendio al di là del merito. E di guadagnare mediamente 149.300 euro: oltre il quadruplo di uno «statale» medio italiano.
Breve promemoria: la scala mobile che adeguava in automatico le buste paga di tutti i lavoratori fu minata da Craxi nel 1984 e soppressa definitivamente da Amato, dopo il fallimento del referendum voluto dal Pci, nel 1992. Gli scatti automatici che fissavano gli aumenti furono tolti a tutti i dipendenti pubblici col Decreto legislativo n. 29 del 3 febbraio ’93, quasi vent’anni fa. Per capirci: lo scudetto andava al Milan di Capello che aveva come bomber Jean Pierre Papin, la serata degli Oscar era dominata da Gli spietati e Casa Howard, Silvio Berlusconi non era ancora sceso in campo, alla guida del Pds c’era Achille Occhetto e agli esteri Emilio Colombo. Un’altra era geologica.
Da allora, gli unici scatti automatici buoni per gli aumenti in busta paga, nel settore pubblico, sono rimasti quelli della scuola. Ovvio: chi entra come maestra alla scuola materna o professore di matematica alle medie, a fine carriera farà ancora, a meno che non cambi lavoro, la maestra alla scuola materna o il professore di matematica senza alcuna possibilità (una vergogna, ma questo è un altro discorso) di aumenti dovuti alla bravura professionale.
Fino a qualche tempo fa nella scuola c’era un primo scatto dopo due anni seguito da uno ogni sei col risultato che un insegnante poteva aumentare lo stipendio, in 25 anni, del 47%. Contro un parallelo aumento per i colleghi dei Paesi Ocse del 69% e addirittura del 98% dei francesi. Adesso anche il primo scatto dopo due anni è stato abolito. Di conseguenza un insegnante può avere in tutta la carriera un massimo di 6 scatti con un incremento della busta paga che in tutta la carriera può arrivare al 50%. Anche nel settore privato, sia chiaro, è rimasto qualche residuo. Gli stessi giornalisti, pur avendo cambiato le regole in questi anni di magra, hanno conservato degli scatti automatici. Che tuttavia possono portare in totale, nell’arco di una vita professionale, a un aumento massimo dichiarato del 72%.
Nel caso dei dipendenti degli organi istituzionali, dal Senato alla Camera, dal Cnel alla Corte costituzionale, la faccenda è diversa. Prendiamo Palazzo Madama: nel 2010 spendeva per stipendi ed emolumenti vari del personale dipendente, escluso quello a tempo determinato, 137.085.372 euro. Il che significa che, risultando 938 dipendenti, la retribuzione media lorda era di 146.146 euro. Più i contributi.
Tanto per offrire dei confronti: nettamente più di quanto guadagnavano mediamente allora i magistrati (132.642 euro) e gli addetti alla carriera diplomatica (93.755). Ma soprattutto il triplo degli universitari, quasi il quadruplo dei medici e degli infermieri del Servizio sanitario nazionale, quasi il quintuplo degli insegnanti e del personale della scuola, fermi a una media di 30.201 euro.
Bene: il bilancio 2011 dice che il risparmio rispetto al 2010 è stato dell’1,87%, corrispondente a circa 2,6 milioni considerando anche il personale a tempo determinato. Ma la spiegazione del calo è illuminante. Testuale: «Tale dato assume particolare significato se confrontato col successivo capitolo del trattamento del personale in quiescenza che, al contrario, presenta un aumento di 6.753.861,31 euro, pari al 7,33%, a causa, sostanzialmente, dei 37 collocamenti a riposo avvenuti nel 2011».
Traduzione: la sforbiciata è stata ottenuta solo perché in 37 sono andati in pensione. Ma questo, per contraccolpo, ha fatto esplodere la spesa previdenziale, che è sempre a carico di Palazzo Madama: un’impennata del 7% in un solo anno. Prova provata che, con i meccanismi attuali, ridurre il personale non porta affatto automaticamente a una riduzione della spesa generale. È vero che finalmente, dal 1° gennaio, anche nella cittadella della Camera alta è stato introdotto il sistema contributivo «pro rata» anche per quelli assunti prima del 2007, ma per vedere i primi risultati veri ci sarà da attendere degli anni.
Fatto sta che dal 2008 al 2011, vale a dire dopo («dopo») lo scoppio della indignazione dei cittadini per gli eccessi dei costi della politica, la spesa per le pensioni del personale del Senato è salita da 82.584.082 a 98.842.943 euro: un’accelerazione mostruosa, del 19,7%. E nei prossimi anni l’andazzo è previsto sugli stessi ritmi.
Lo dice il bilancio preventivo del 2012 approvato all’inizio di agosto. Mentre la spesa per il personale dipendente (tolto quello a tempo determinato) dovrebbe diminuire di circa 2 milioni 560 mila euro, fermandosi a 131 milioni 970 mila euro, la spesa per le pensioni salirebbe invece a 106 milioni 850 mila euro. Il che significa che negli anni in cui il Pil pro capite degli italiani calava (dati Istat) del 6,5% e la vendita delle auto crollava ai livelli del 1983, la bolla previdenziale di Palazzo Madama si gonfiava del 29%. E continuerà a gonfiarsi fino a 109 milioni nel 2013 e quasi 112 nel 2014.
Colpa dei dipendenti del Senato brutti, cattivi e viziati? Ma per carità ! Non ci permetteremmo mai di dirlo. Si tratta in larga misura di persone di prim’ordine, di professionisti bravissimi, di esperti che riescono spesso a supplire con la loro preparazione ai limiti di una classe politica che, dati alla mano, è drammaticamente inferiore perfino sotto il profilo scolastico a quella degli altri Paesi avanzati.
Ma i meccanismi che hanno portato alla situazione attuale sono diventati palesemente insostenibili. Basti ricordare che l’automatico rinnovo dei contratti interni, disdettato dalla maggioranza di centrosinistra nell’infuriare delle polemiche sui costi del «Palazzo» e subito ripristinato per quieto vivere dalla destra dopo le elezioni vinte nel 2008, ha fatto lievitare il peso del personale (stipendi e pensioni) fino al 43,31% dei costi del Senato. Assurdo.
Il guaio è, come dicevamo, che sono ancora in vigore, oltre al meccanismo del recupero triennale dell’inflazione, anche gli scatti di progressione automatici biennali. Per avere un’idea dei loro effetti, in quarant’anni lo stipendio annuo lordo di un «assistente parlamentare», il livello più basso, quello dei commessi, può crescere da 38.059 a 159.729 euro moltiplicandosi per 4,2 volte. Quello dei coadiutori da 46.678 a 192.446. Quello dei segretari da 56.766 a 255.549. Quello degli stenografi da 67.390 a 287.422. Ma il top della progressione spetta ai consiglieri parlamentari, la cui retribuzione può passare da 85.415 a 417.037 euro, lievitando di quasi cinque volte. E ci riferiamo alle buste paga del 2008. Che da allora, al netto dei tagli provvisori di Tremonti, sono lievitate ancora.
Sinceramente: è difendibile un meccanismo come questo? Questo pomeriggio, quando si ritroveranno all’assemblea convocata dalla Cgil per denunciare la minaccia che siano toccati quei meccanismi automatici di progressione degli stipendi, sarebbe un peccato se i dipendenti del Senato alzassero le barricate. E guai se lo facesse, per rastrellare consensi, qualcuno dei 14 (quattordici!) sindacati autonomi interni. Credono davvero che se si asserragliassero in cima a una gru o nel pozzo di una miniera per difendere i loro «diritti acquisiti» così gli italiani capirebbero?
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