Ghana, campi di concentramento per le streghe del Duemila
Asana, 27 anni, è arrivata al campo di concentramento di Gambaga accompagnata dal nuovo marito: «A casa non posso proteggerti», le ha detto. Ad accusarla («quella strega mi è apparsa in sogno e mi voleva uccidere») è stato l’ex compagno, quando ha scoperto che Asana era al quinto mese di gravidanza. Dopo averla picchiata l’ha trascinata davanti a un piccolo altare votivo «e mi ha versato addosso della plastica fusa». Allora il nuovo marito, anziché alla polizia, l’ha condotta a Gambaga, uno dei sei campi nel Nord del Ghana dove vengono «concentrate» le donne accusate di magia nera.
In ottocento vivono nelle capanne di fango di questi «witch camps» lontani dai centri abitati, secondo l’ultimo censimento dell’organizzazione umanitaria ActionAid che vi opera dal 2005. Sono carceri dalle mura invisibili, ghetti-rifugio vecchi di cent’anni. Niente sbarre o catene e questo a pensarci è ancora più spaventoso, quando l’unica libertà che ti resta è scegliere la prigionia, quando Asana che vive a Gambaga passa per fortunata in confronto alle «streghe» che devono affrontare ogni giorno lo stigma e la violenza di «fuori». Per le donne come Asana (gli uomini accusati di magia sono pochissimi) tornare nei villaggi vorrebbe dire rischiare di essere uccise, subire la sorte di quella povera 72enne che nel 2010 fu arsa viva dai vicini. E allora meglio rimanere per tutta la vita nei sicuri campi della vergogna come ha fatto Sano Kojo, 66 anni, che fu mandata al ghetto di Kukuo nel 1981, accusata di aver tolto il respiro a un cugino. «A nessuno importa di noi. Una volta che arrivi qui, si dimenticano di te».
In Ghana come in molte altre parti dell’Africa la stregoneria (lo juju) nel Terzo Millennio resta una cosa seria. A tutti i livelli sociali. La canadese Karen Palmer, autrice del libro Spellbound: Inside West Africa’s Witch Camps (Sotto maleficio: dentro i campi per le streghe dell’Africa), l’ha sperimentato di persona frequentando anche i ghanesi «colti», molti dei quali fanno comunque ricorso a santoni o fattucchiere, amuleti e riti magici. È indicativo che nei campi delle esiliate, secondo il rapporto di ActionAid, ci siano quasi tutte donne anziane, al 70% vedove o non sposate, senza figli e in maggioranza prive di reddito al momento della cacciata dai villaggi. «I campi sono una drammatica manifestazione dello status delle donne in Ghana», sostiene il professor Dzodzi Tsikata. Sono le persone più vulnerabili a essere accusate di stregoneria nella regione più povera di un Paese che fu il primo territorio africano a veder approdare i colonizzatori europei. Una storia di successo (economico, civile e pure calcistico): oro, cacao (secondo produttore mondiale) e una bella Costituzione che garantisce sulla carta uguaglianza e diritti civili.
I «witch camps» intaccano la fedina internazionale di un Paese che ha ridotto la dipendenza agli aiuti stranieri dal 46% al 27%. Anche per questo il governo di Accra l’anno scorso ha promesso (con un po’ di ipocrisia?) di chiudere i campi della vergogna entro il 2012. Ottimo, ma non subito: non sembri paradossale l’appello di ActionAid, che invita le autorità a uno smantellamento graduale dei ghetti per streghe. Una ricerca del 2008 ha dimostrato che il 40% di quante erano state reintegrate nei villaggi d’origine entro un anno hanno fatto ritorno ai campi di prigionia. Sono ghetti ma anche rifugi. Lì le «streghe» non vengono attaccate perché si ritiene che il territorio sacro neutralizzi i loro malefici. D’altra parte, dice Lamnatu Adam, la vita è dura e umiliante. Ristrettezze materiali (cibo, acqua) e «il senso di vergogna per essere state cacciate dalla comunità ». Talvolta gli accusatori sono gli stessi familiari.
I campi sono governati da capi o santoni maschi detti Tindanas, ritenuti in possesso di poteri soprannaturali. Sono loro, a Gambaga, a svolgere le «cerimonie di purificazione» dopo aver giudicato se una nuova arrivata sia colpevole di magia nera. Il rituale (inutile) è equivalente al nostro lancio della monetina. Alle divinità viene sacrificato un pollo. Se il pennuto muore a testa in giù, il verdetto è: colpevole. Altrimenti in teoria la donna potrebbe tornare al villaggio (ma questo non succede per la paura e il clima di discriminazione).
Un destino peggiore tocca alle nipotine che vengono mandate (dalle famiglie) ad aiutare le streghe esiliate. Nei campi vivono anche 500 minori. Non vanno a scuola (compagni e insegnanti non li accettano). Anche loro si portano addosso lo stigma, il «contagio» del malocchio. E quando raggiungono la maggiore età , è difficile che oltrepassino quelle mura invisibili.
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