Export frenato? Non c’è solo l’auto

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I tedeschi esportano più di noi persino nell’alimentare. Non bastano i successi cinesi delle vetture Volkswagen a procurarci rimorsi, anche nel food abbiamo fatto meno di quanto avremmo potuto e dovuto. Potrà , infatti, sembrare incredibile che il Paese della pasta, del vino, del prosciutto crudo, del parmigiano, dell’olio d’oliva e di tante altre specialità , sia largamente dietro ai tedeschi nelle vendite all’estero ma è la pura verità .
Berlino vende oltrefrontiera il 27,5% della propria produzione e si tratta soprattutto di latte e derivati, carni, cioccolata, the e caffè. Noi riusciamo ad esportare solo il 19% di quanto produciamo e si tratta di una quota inferiore a quella degli altri settori del made in Italy. Secondo il capo-economista di Intesa Sanpaolo Gregorio De Felice è giunto il momento di recuperare terreno e di darci un obiettivo ambizioso: raggiungere la Germania almeno in termini relativi (percentuale di export su fatturato nazionale). In numeri vuol dire programmare un balzo in avanti delle nostre esportazioni di quasi 10 miliardi di euro (oggi siamo a quota 24,3 miliardi). In tempi di disoccupazione galoppante la prima domanda è quasi scontata: a quanti posti di lavoro corrisponderebbe una così forte accelerazione del made in Italy? E’ difficile prevederlo anche se secondo Filippo Ferrua, presidente degli industriali di Federalimentare, saremmo nell’ordine di qualche migliaio di nuovi posti. Più ottimista la stima del Servizio studi e ricerche di Intesa Sanpaolo che al tema ha dedicato uno studio e un affollato convegno.
Negli ultimi dieci anni l’avanzata dei prodotti della tavola tedesca è stata lenta ma continua. Si è giovata sicuramente della crescita dei paesi limitrofi e più generale dell’Est europeo e della forza di una grande catena di distribuzione come la Rewe. Nello stesso lasso di tempo il made in Italy ha retto subendo però nella classifica mondiale un piccolo arretramento. E’ realistico, quindi, oggi porsi l’obiettivo di vendere all’estero 10 miliardi di euro in più? Per Ferrua lo è e la dimostrazione sta nel successo che incontrano nel mondo i prodotti di italian sounding, marchi che foneticamente sono italiani ma quanto a marchi, materie prime e qualità  del processo industriale sicuramente no. Sono i vari Parmesan inventati in più Paesi e casi di assoluto successo come la pasta francese Panzani. Ebbene l’italian sounding ha un giro d’affari di 60 miliardi di euro e di conseguenza la potenzialità  di collocare vero made in Italy c’è tutta. Si tratta solo di darsi da fare.
Che cosa manca, però, al nostro food per accorciare le distanze con i tedeschi? Non certo la qualità  e tantomeno la fantasia. Noi vendiamo meno latte e latticini di loro e anche meno carne ma abbiamo la pasta e il vino, i salumi, l’olio di oliva. Dal punto di vista industriale l’agro-alimentare italiano si presenta eccessivamente frammentato, le Pmi sono la norma mentre mediamente le aziende tedesche sono più robuste. Proprio perché piccole le nostre aziende non riescono a imporre minimamente il loro brand all’estero. E’ vero che abbiamo grandi marchi conosciuti ovunque, però sono tutto sommato pochi quelli che però si possono permettere di investire in pubblicità  all’estero. Pesa poi quello che viene chiamato il protezionismo sanitario, una forma di ostruzione all’importazione di salumi, formaggi e persino dolci, praticata da una serie di mercati importanti come Usa, Brasile e India.
Ma se dovessimo individuare il vero tallone d’Achille dell’alimentare italiano, lo svantaggio competitivo nei confronti di tedeschi e francesi sta nella mancanza di grandi reti di distribuzione nazionali. I cugini transalpini ad esempio hanno sfondato in Cina grazie ai loro colossi del carrello, Carrefour fuori della Francia ha più di 16 mila punti vendita. Noi confidiamo moltissimo nel genio commerciale di Oscar Farinetti e della sua Eataly ma è evidente che stiamo parlando di dimensioni del tutto differenti. Il food made in Italy proprio perché non sostenuto da nessuna catena di grande distribuzione (Esselunga e Coop Italia non hanno nei loro programmi sfondamenti oltrefrontiera) deve implorare un angolo nei grandi supermercati o finisce nella cosiddetta area etnica assieme a prodotti che vengono da altri Paesi o continenti in un pout-pourri che mescola couscous, paella e prosciutto di Parma. Qualche grande azienda come Rana, Illy e ora Barilla ha realizzato o sta pensando di costruire una rete di propri ristoranti e bar: è una scelta giusta anche se si tratta di investimenti costosi che si ripagano solo nel tempo. Altri come Beretta Salumi preferiscono aggirare il protezionismo sanitario andando a produrre in loco come è accaduto negli Usa e in Cina.
Spesso a ridurre le potenzialità  del made in Italy c’è anche la resistenza dei produttori italiani a mettere sul mercato prodotti veramente globali. Il mondo vuole arance gialle e snobba le buonissime arance siciliane rosso sangue, i formaggi stagionati che da noi spopolano sono poco conosciuti nel mondo che invece predilige i molli. In Cina una cosa è vendere alla ricca e cosmopolita comunità  degli espatriati di Shanghai, altro è pensare di espugnare le roccaforti del tofu, il formaggio cinese. Se si vuole sfondare nelle metropoli occidentali bisogna rassegnarsi a produrre confezioni per single anche se la qualità  del parmigiano, ad esempio, sicuramente ne soffre. Sono solo esempi ma fanno dire agli esperti che «non dobbiamo imporre il made in Italy ma saperci adeguare». Tra i prodotti che, almeno sulla carta, hanno le maggiori chance di crescita sono l’olio di oliva, le conserve vegetali, il caffè e i dolci. E i mercati sui quali gli esperti invitano a insistere sono Russia, Emirati Arabi e Corea dove non esistono comunità  italiane ed è dunque terreno vergine.
Ma il sistema Italia avrà  la forza e la determinazione per sostenere la provocazione di De Felice?


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