Evacuate le ambasciate a rischio E il Pentagono sposta le truppe In Libia
WASHINGTON — Chi «traccia» i movimenti aerei se ne era accorto. Velivoli delle forze speciali spostati dagli Usa al sud del Mediterraneo e in Medio Oriente. Ieri il segretario alla Difesa Panetta ne ha spiegato la ragione: il Pentagono ha schierato unità pronte a intervenire nel caso si verifichino situazioni di emergenza. Lui è convinto che il peggio sia passato ma considera la storia delle violenze chiusa. In qualsiasi momento potrebbero verificarsi nuovi episodi, a partire da oggi, con l’appello dell’Hezbollah a manifestare «con forza» per tutta la settimana.
Il timore, del resto, emerge dai provvedimenti presi dal governo americano. Dove ha potuto (Libia) ha inviato rinforzi dei marines, in altre Paesi — Tunisia, Sudan, Yemen — ha ordinato il rimpatrio del personale non necessario e dei familiari. Misura motivata con il fatto che le autorità si sono rivelate incapaci di fronteggiare in modo adeguato gli estremisti.
Le manovre visibili sono accompagnate da quelle più discrete, affidate a forze speciali e agli onnipresenti droni. Gli aerei senza pilota sono in azione in Libia, dove tengono d’occhio i militanti sospettati di essere gli autori dell’assalto di Bengasi. Una pressione, anche psicologica, che si aggiunge alle indagini che partono dalla cinquantina di arrestati. Il presidente libico Mohamed Magariaf ha affermato che i terroristi locali potrebbero aver ricevuto l’aiuto di stranieri provenienti da Mali e Algeria. I salafiti locali hanno fatto da schermo a elementi forse legati ad Al Qaeda nella terra del Maghreb. Ma se questa fazione ha voluto aprire il fronte libico sembra strano che non lo abbia rivendicato. Analizzando i video della tragica notte gli agenti locali si sono accorti che alcuni dei presenti parlavano in egiziano. Magari si trattava di semplici dimostranti però le autorità vogliono capire chi fossero. Anche perché testimonianze hanno riferito che alcuni degli assalitori — armati di lanciagranate Rpg — non sarebbero stati libici. Con un dettaglio: se i colpevoli sono stranieri il problema non è più solo di Tripoli e richiede una risposta più ampia. Una mano può venire dagli Usa che hanno mobilitato l’Fbi, ma gli investigatori non hanno ancora raggiunto Bengasi perché il quadro è molto instabile e gli agenti potrebbero essere loro stessi vittime di agguati. Il che aiuta a capire coma vanno le cose nella principale città della Cirenaica.
Si continua poi a discutere del momento precedente all’attacco. I libici insistono nel parlare di un piano ben preparato. E aggiungono che tre giorni prima avevano avvisato gli americani sulla situazione pericolosa venutasi a creare in a Bengasi. L’impressione, però, è che si sia trattato di una segnalazione generica e non di indicazioni specifiche. Sempre i libici sembrano disegnare uno scenario in tre fasi per l’attacco costato la vita all’ambasciatore Chris Stevens: 1) Una dimostrazione con poche centinaia di persone davanti al consolato. 2) Il raid di uomini armati con mitragliatrici e granate. 3) Il saccheggio dei locali. In questa ricostruzione i salafiti hanno rappresentato la «nebbia» che ha protetto i terroristi veri.
Chi non crede alla teoria del piano è invece l’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Susan Rice, per la quale si è trattato di una manifestazione degenerata in violenze e dirottata da gruppi armati. La diplomatica, nota per essere tra le sostenitrici della primavera araba, ha comunque espresso fiducia sul futuro. In realtà al Dipartimento di Stato non vedono un orizzonte roseo. C’è grande preoccupazione. Gli analisti si aspettano una continua instabilità , con possibili acuti di violenza. Insomma, il vulcano è sempre attivo.
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