Dopo il massacro, i minatori tornano al lavoro

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Il lavoro può riprendere nella miniera di platino di Marikana, in Sudafrica, teatro nell’ultimo mese e mezzo di un conflitto sindacale costato la vita a 46 persone – 34 uccise dalla polizia antisommossa il 16 agosto: un massacro che ha riportato alla memoria i momenti peggiori del regime dell’apartheid.
I minatori hanno cominciato ieri a tornare al lavoro dopo aver firmato martedì un accordo con la compagnia Lonmin. Hanno strappato aumenti salariali tra l’11 e il 22%, a seconda delle qualifiche e delle mansioni, oltre a un una tantum di 2.000 rand (circa 200 euro) per coprire le settimane di sciopero. E’ un aumento superiore al 5% del tasso d’inflazione, ma certo molto più basso di quello che chiedevano gli addetti ai pozzi – la mansione più dura, pericolosa e malpagata – quando il 10 agosto hanno deciso di mettersi in sciopero. Volevano 12mila rand (circa 1.200 euro), contro i 4.000 che prendevano (400 euro). Irrealistico, certo, e del resto lo sciopero è stato subito definito illegale dall’azienda e sconfessato dal sindacato ufficiale – la National Union of Mineworkers, affiliata alla confederazione sindacale vicina all’African National Congress, dunque al governo. Era sostenuto invece da un’organizzazione più radicale e dal consenso crescente tra i lavoratori, la Association of Mineworkers and Construction Union (Amcu), nata da una costola del vecchio sindacato.
L’antagonismo tra i due sindacati è stato citato dai media e dalle fonti governative come la causa della violenza vista durante il conflitto, con una decina di persone – tra cui due poliziotti – uccise nei giorni precedenti al massacro. Ma questo non spiegherebbe la rabbia profonda espressa dai minatori che si erano asseragliati su uno sperone di roccia accanto alla bocca della miniera e rifiutavano – anche dopo il massacro del 16 agosto – di tornare al lavoro, nonostante l’azienda minacciasse di licenziare tutti (lanciata pochi giorni dopo il massacro, la minaccia era parsa fuoriluogo perfino al governo che infatti ha chiesto alla Lonmin di ritirarla). Né spiegherebbe perché scioperi e rivendicazioni si sono estesi nelle ultime settimane ad altre miniere di platino sudafricane.
Martedì molti lavoratori hanno celebrato l’accordo. Altri hanno bofonchiato che tornano al lavoro perché ormai affamati, senza paga da sei settimane, ma certo non per quei pochi soldi in più. Parlare di ritorno alla normalità  sembra prematuro: da sabato scorso la zona di Marikana e tutta la regione mineraria del Rustemberg, a nord-ovest di Johannesburg, è presidiata da un migliaio di soldati, il cui dispiegamento è stato autorizzato dal presidente Jacob Zuma per aiutare la polizia «a prevenire e combattere il crimine e mantenere legge e ordine nell’area di Marikana». Pare che tra le zone «militarizzate» saranno inclusi alcuni distretti di Città  del Capo ad alta conflittualità  sociale.
E infatti la conflittualità  resta alta. Ancora mercoledì la polizia ha sparato gas lacrimogeni e proiettili (di gomma, stavolta) per disperdere i minatori che protestavano presso un’altra miniera della regione, questa di proprietà  della Anglo American Platinum, il maggior produttore mondiale di platino. E sui media ufficiali molti ora si chiedono se l’aumento di paga ai lavoratori di Marikana non rischi di incitare altri a seguire la stessa strada. I 15mila addetti della miniera d’oro Dreifontein Gold Mine restano in sciopero. Si legge di gruppi di «mestatori» che vanno da una miniera all’altra per incitare alla protesta, armati di machete e bastoni. Proprio per questo la scorsa settimana il governo ha annunciato una serie di misure per mettere fine alle proteste «illegali» e riportare l’ordine nelle zone minerarie: sono stati vietati gli assembramenti non autorizzati e la polizia ha cominciato a perquisire gli ostelli dei lavoratori.
La mobilitazione dell’esercito ha suscitato nuove polemiche in Sudafrica, anche perché la notizia è stata diffusa a cose fatte (l’esercito è arrivato a Marikana sabato 14, il decreto che lo ha autorizzato è stato pubblicato martedì sulla Gazzetta ufficiale). E perché non sarà  una cosa passeggera: la presenza delle truppe nelle zone «turbolente» è stata autorizzata dal 14 settembre al 31 gennaio del prossimo anno. In parlamento l’opposizione protesta: è uno «stato d’emergenza non dichiarato» e illegale, accusa Julius Malema, l’ex leader della federazione giovanile del Anc.
Il massacro di Marikana continua a pesare come un macigno, tanto più dopo che dalle autopsie e dalle testimonianze dei sopravvissuti è emersa una verità  ben diversa da quella della polizia: gli agenti non spararono perché si sono visti attaccati da uomini armati di machete o perfino armi da fuoco, come detto quella sera. Nella prima salva di colpi sono cadute a terra sette o otto minatori, ma gli altri, fino ad arrivare a 34, sono stati uccisi nelle due ore successive in una sorta di caccia all’uomo. Molti sono stati raggiunti da colpi sparati alle spalle o mentre erano già  a terra.
Una inchiesta ufficiale è ancora in corso, le sue conclusioni non sono attese prima di gennaio. Fino ad allora è molto improbabile che i responsabili delle forze dell’ordine siano chiamati a rispondere di quel massacro. A vent’anni dalla fine dell’apartheid, è evidente che la polizia sudafricana continua ad essere addestrata a sparare per uccidere.


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