Dieci giorni di botte e torture poi la fuga verso il confine l’odissea di due fratelli siriani
REYHANLI (Confine turco-siriano) — Thaled ha un braccio ingessato, il naso rotto e un vasto ematoma sulla parte sinistra del viso. Yasmine mostra invece chiazze rossastre di calvizie sulle tempie, là dove c’erano i capelli che le sono stati strappati, e un occhio ancora pesto. Sono fratello e sorella, hanno 21 e 23 anni. Fuggiti da Aleppo dieci giorni fa, i due si vergognano quasi dei segni delle torture subite nelle carceri del presidente Bashar al Assad. Torture tanto più atroci che sono state loro inflitte nella stessa stanza, prima all’uno poi all’altra, per una decina di giorni di seguito. Durante l’ora e mezzo che trascorriamo assieme, la ragazza tiene sempre il braccio attorno alle spalle del fratello, come se con quel gesto protettivo volesse evitargli chissà quali altri supplizi.
Li incontriamo a Reyhanli, a pochi chilometri dal confine turco-siriano, nella casa affittata da uno zio scappato mesi fa. Thaled e Yasmine hanno esitato a lungo prima di raccontare il loro calvario. Ad Aleppo hanno lasciato la famiglia e temono che gli aguzzini del regime possano per rappresaglia accanirsi contro di essa. Dice la ragazza: «Non so come ho potuto sopravvivere a quanto m’hanno fatto, ma sono certa che se dovesse capitare a mia sorella, lei morirebbe. La prego, nel suo articolo non scriva il nostro cognome».
I due sono stati arrestati il 20 luglio scorso dagli shabiha, le squadracce pro Assad, pochi giorni prima che le forze lealiste lanciassero la loro mostruosa offensiva aerea per riconquistare i quartieri caduti nelle mani degli insorti. «Hanno sfondato la porta d’ingresso all’alba. Mezz’ora dopo eravamo già in un commissariato dove gli uomini delle forze di sicurezza hanno cominciato a picchiarci, senza neanche spiegarci per quale motivo ci avevano portati lì», racconta Thaled. «Continuavano a dirmi che avrebbero violentato mia sorella in dieci se non avessi denunciato i miei compagni di lotta. Ma io non ho mai fatto politica, non ha mai combattuto contro il presidente né ho mai aiutato o conosciuto nessun soldato dell’Esercito libero siriano».
Yasmine non è stata stuprata da dieci soldati, come ci dirà accompagnandoci alla porta lo zio che la ospita. Peggio, i suoi carcerieri l’hanno violentata con un bastone. E’ accaduto alla fine della loro detenzione, sotto gli occhi del fratello. «Per lei è stato come se l’avessero segnata col fuoco», ci dice lo zio. «E mentre Yasmine veniva violentata, altri soldati rompevano il braccio di Thaled colpendolo con una spranga. Quei bastardi hanno voluto terrorizzarli per sempre».
Durante il nostro incontro nessuno dei due fa menzione dell’accaduto. Yasmine racconta piuttosto di quanto la facesse soffrire vedere il fratello picchiato dagli agenti. Dice: «Cominciavano a schiaffeggiarlo, sempre più violentemente. Poi lo buttavano a terra, e mentre uno dei soldati gli schiacciava la testa con lo scarponcino gli altri lo colpivano a calci in pancia e sulla schiena. Nel frattempo, uno di loro, credo il più alto in grado, mi insultava e mi minacciava tirandomi i capelli. Io non sentivo quasi niente, neanche quando gli restavano delle ciocche in mano. Un paio di volte credo di aver perso i sensi. Ma non è stato per il dolore. Sono svenuta dalla paura, per le botte che davano a Thaled».
I ricordi del ragazzo sono più confusi. Salvo quando racconta della stanza dove l’hanno portato il giorno dopo il suo arrivo nel commissariato. «Ho visto tre ragazzi della mia età , appesi per le braccia al soffitto. Sanguinavano. Due sembravano svenuti. Il terzo si lamentava con un filo di voce. L’ho guardato in faccia, ma era tutto gonfio e pieno di tagli. Mi dissero che appena uno dei tre fosse morto, avrebbero appeso a me». Thaled racconta ancora delle urla e di altri spaventosi rumori che udivano attraverso i muri della cella dove erano rinchiusi. E del cibo disgustoso che veniva loro servito.
Appena scarcerati, il padre è riuscito a farli sconfinare. Quando sono arrivati in Turchia, Yasmine non ha voluto parlare con la psicologa dell’ospedale dove è stata ricoverata. Suo fratello è stato invece operato al braccio e ingessato. Dice Thaled: «Adesso ho un solo desiderio. Quello di guarire in fretta. Perché voglio tornare ad Aleppo, per combattere contro Assad».
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