Da Pasolini alle canzoni di Dalla l’uomo che coltivava le parole della vita

by Sergio Segio | 16 Settembre 2012 17:21

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«È morto il capitano, cade in mare ogni luce di festa», scriveva in Dopo Campoformio, ma non parlava di sé: i poeti non sono condottieri, i poeti passano, i menestrelli passano: «Chiedilo a una ragazza di quindici anni di età , chiedi chi erano i Beatles…», ha scritto beffardo per una canzone degli Stadio. E anche i libri, i libri «che mi hanno salvato la vita», anche i libri che lui stesso ha scritto, «non so che sorte avranno, forse la pattumiera della storia… Ma la carta è riciclabile», spiegava dolcemente malinconico ai pochi ai cui apriva, «periclitante», la porta di quell’appartamentino in cui aveva scoperto il colore degli intonaci: «troppo bianchi questi muri» per lui che aveva vissuto tutta la vita circondato da scaffali stipati, traboccanti di libri. Trecentomila: poteva tenerne il conto con una certa precisione, «225 cataloghi da oltre mille titoli ciascuno, più i miei personali e quelli che tenevo per i clienti speciali». Carezzati uno per uno, soprattutto «i libri-cane, umili stazzonati randagi», curati a dosi di coccoina e cartone fino al momento di venderli, «il momento più doloroso per un libraio», ai clienti affezionati della sua libreria antiquaria Palmaverde, che per ultimo indirizzo ebbe, crederci o no, via dei Poeti. Incartati con cura, salutati spesso con una poesia infilata fra le pagine: a Singapore o a Ottawa ci sono possessori di un autografo in copia unica di un grande poeta, e forse neppure lo sanno. Poeta civile? La barba mazziniana, candida e incurvata ai lati, la schiena dritta a dispetto del bastone, la fisionomia era quella: un uomo del nostro Risorgimento più integro e radicale. Ma lui preferiva «poeta fuori di sé». Nel senso che «scrivere delle mie rogne private non mi interessa». Quando cominciò a progettare una rivista, assieme al compagno di liceo Pier Paolo Pasolini, nelle pause delle partite di calcio al campo dello Sterlino, il confronto era già  con la Storia. Solo che la Storia allora aveva altro da fare: «Passò un uomo in bicicletta gridando “Hitler ha invaso la Polonia!”», e la rivista che aveva già  un titolo, Eredi, dovette aspettare fino al 1955, e si chiamò Officina. Meglio così, perché nel frattempo Roversi, figlio di un noto radiologo, aveva scoperto i libri, in blocco, comprando a poche lire una biblioteca nobiliare e stipandola perfino sotto il letto nuziale. Nei locali della sua prima libreria fu l’ospite, l’oste, di quel circolo di irrequieti che si chiamavano Pasolini, Franco Fortini, Paolo Volponi, Leonardo Sciascia: non gli compravano neanche un libro, ma gli regalavano certe meravigliose «battaglie senza sangue» di ingegni. Anche Roversi scriveva. Poesie via via meno timide. Teatro. Un romanzo durissimo sul brigantaggio, Caccia all’uomo, in realtà  una metafora critica della Resistenza, a cui aveva preso parte, che Vittorini gli volle pubblicare nella “Medusa degli italiani”. Era di fatto un libro contro il romanticismo celato nel Neorealismo, che per il rigoroso, antisentimentale Roversi «annebbiava in un lucore un po’ polveroso il panorama delle cose appena patite». Uomo di radicale opposizione all’esistente, laico integrale, pronto a schierarsi (accettò come Pasolini e Pannella di firmare Lotta Continua da direttore responsabile per scongiurarne la chiusura), diffidava delle tendenze culturali della sinistra: si tenne lontano anche dagli sperimentalismi del Gruppo ’63. Libri di Roversi, nelle librerie, ne troverete pochi. Dopo aver pubblicato per Feltrinelli e Einaudi, nel ’96 fece una scelta radicale. Restare fuori da ogni circuito, mercato, circo. Pubblicare da solo, magari ciclostilare. Libri come samiszdat. Fogli volanti come stampa clandestina. Il cerchio di gesso uscì nel fuoco del ’77 bolognese, poi fu la volta di rivistine dai nomi curiosi e dalla vita breve: Foglio degli eremiti, Fischia il vento, Gioco d’azzardo… Dal poeta di via dei Poeti, riservato e anche scontroso, la meglio gioventù bolognese andava con timorosa aspettativa, dattiloscritti in mano: si sapeva che lui leggeva tutto. Che lo interessava tutto. «Poeta innumerevole», lo ha definito con un tweet, ieri, Lorenzo Jovanotti, ricordandosi forse di quando Roversi lo aveva paragonato nientemeno che a Leibniz per quel verso, «Io penso positivo perché son vivo». Non aveva paura, Roversi, di sporcarsi le mani mescolando le culture, il calcio e Goethe, Joyce e Jim Morrison, i motori a scoppio e Sklovskij. Venne un giorno, per esempio, quel ragazzo barbuto che voleva a tutti i costi dei versi per farci delle canzoni, e lo convinse dicendo: «Io metto in musica anche l’elenco telefonico, se lo scrive lei», e due mesi dopo bussò alla sua porta con una musicassetta in mano. Non c’era mangiacassette in libreria: allora andarono ad ascoltarla in macchina, girando sui colli. Era Il giorno aveva cinque teste, e il ragazzo irsuto era Lucio Dalla. Fecero insieme tre album che ribaltarono la canzone d’autore italiana, ma Roversi, demiurgo generoso di genialità  altrui, sapeva che sarebbe finita, che doveva solo insegnargli a volare, «poi da solo fece dei dischi che vendevano cento volte i nostri, ma erano bellissimi: Caruso gliel’ho invidiata». «Per me, la grande speranza è sempre stata di essere simile a lui», lo ricambiò Dalla. Si erano rivisti di recente, Roversi gli aveva regalato il testo di una canzone su Obama, titolo Rulla tamburo, ma non la ascolteremo mai. Sulla scrivania, quando Dalla morì, Roversi aveva il suo ultimo album con dedica: «A Roberto Roversi, maestro padre amico». Poi, quando venne l’ora, bisognò decidere che fare della libreria. «Le librerie, come i figli, non si vendono, al massimo si chiudono». I libri invece «devono continuare a girare », e lui si liberò degli ultimi quattromila con una grande asta, il ricavato ai senzatetto. Tenne con sé solo «i libri che non ho ancora letto, e quelli che voglio rileggere». Appartato e osservatore, nobile, dolce e severissimo, intransigente senza moralismi, coscienza critica che nessuno ha mai domato, da allora era rimasto chiuso in casa, a «scrivere furiosamente » (sgridato dalla materna Elena: «Fai almeno un giretto in corridoio ogni tanto!»), non per lasciare monumenti di carta, ma perché «tacere è morire». Ora l’Italia ha una coscienza in meno, e un consiglio in più da dare a una ragazzina di quindici anni: chiedilo, chiedi chi era Roberto Roversi.

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