by Sergio Segio | 22 Settembre 2012 7:12
Si tratta di una cecità politica che coinvolge quanti a livello nazionale pensano di poter comprimere una montagna di soldi e fango destinati a tracimare. La Guardia di Finanza che entra nella sede della Regione Campania e indaga sulle spese dell’Idv di Antonio Di Pietro a Bologna, allarga l’obiettivo e addita gli enti locali come una vera idrovora del denaro pubblico. D’altronde, lo scandalo segue la scia delle inchieste della magistratura che hanno toccato Lombardia e Sicilia, abbracciando simbolicamente l’intero territorio nazionale.
Si delinea dunque proprio quell’«effetto domino» politico-giudiziario che i partiti temono a pochi mesi dalle elezioni. Il fatto che di fronte ad accuse gravi di sperperi la reazione sia quella di farsi schermo con la legge, costituisce un’aggravante. Si tratta, di fatto, di norme di autofinanziamento che le nomenklature si sono ritagliate su misura, e che gridano vendetta in una fase di crisi economica acuta. Rappresentano la degenerazione caricaturale del potere legislativo, e minacciano di colpire a morte qualunque idea di autonomia locale. Sono destinate a portare non soltanto al disgusto nei confronti della politica, ma ad una riduzione drastica e a furor di popolo dei fondi per regioni e comuni.
Il rischio è che le vittime innocenti del malcostume diffuso, anche se si spera non generalizzato, siano settori come la sanità , l’istruzione, i servizi. Quando si pensa che in passato sindaci e governatori erano considerati il serbatoio naturale al quale attingere la classe politica nazionale, vengono i brividi. Oltre a bruciare denaro dei contribuenti, va in fumo qualunque speranza di ricambio. Il «potere municipale» si sta manifestando con le caratteristiche di una partitocrazia minore ma più famelica e più arrogante dell’altra. Forse perché la selezione è avvenuta al ribasso; o perché ha goduto di riflettori addomesticati e indulgenti, all’ombra di una altisonante retorica federalista.
L’idea di fingere punizioni esemplari per dare un contentino all’opinione pubblica senza cambiare comportamenti e meccanismi di finanziamento, è illusoria. I calcoli elettorali dei partiti, più preoccupati di non perdere clientele e voti che di dare segnali veri di rinnovamento, somigliano a sacchetti di sabbia affastellati in fretta e furia per fermare uno tsunami. In realtà , il collasso del modello regionale è il cascame inevitabile della crisi della Seconda Repubblica. E l’implosione di alcune forze politiche è il segno che il collante della spesa pubblica non regge più neppure a livello locale. Anzi, se ha retto tanto a lungo è stato solo grazie ad una complicità trasversale.
Il 2012 promette di essere la tomba di un modo di governare come lo sono state le inchieste giudiziarie di una ventina d’anni fa. E il vuoto di potere che si intravede provoca vertigini ancora più preoccupanti. Mette paura non tanto il rifiuto di vederlo, ma l’incapacità di farlo per mancanza di consapevolezza. Un’Italia che per anni è stata «mitridatizzata» assorbendo dosi di velenoso malgoverno, adesso è costretta a guardare in faccia politici locali che sono lo specchio di questa lunga impunità . Ma forse la nomenklatura è convinta che si possa continuare all’infinito, perché «così fan tutti». La novità è che, moralità o moralismi a parte, si tratta di un andazzo troppo costoso. Il parassitismo e l’inefficienza hanno un prezzo che pochi, ormai, si possono permettere di sostenere. Dover ricorrere di nuovo alla «supplenza» dei tecnici o delle procure è la certificazione dell’ennesima involuzione.
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