Così l’italia è diventata una “peggiocrazia”

by Sergio Segio | 13 Settembre 2012 6:04

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Anche se gli Stati Uniti si stanno sempre più avvicinando al capitalismo clientelare di tipo italiano, c’è un aspetto in cui l’Italia è profondamente diversa: l’illegalità  diffusa. Se le imprese americane pagano i lobbisti per cercare di modificare la regolamentazione a proprio favore, in Italia le imprese pagano direttamente i funzionari statali per evitare di sottostare alla regolamentazione e per evadere le tasse. È un problema non solo etico, ma anche economico.
Già  nel 1981, in un’intervista su Repubblica (fatta da Eugenio Scalfari, n.d.r.), Enrico Berlinguer, allora segretario del Partito comunista, sollevava la “questione morale”. La sua era una battaglia politica contro il sistema di potere democristiano. «I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela», diceva, «gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi».
Berlinguer rivendicava la superiorità  morale del suo partito, ma, come dimostrarono poi i fatti, era la moralità  di un partito che non era stato al potere e che, come tale, non aveva avuto l’opportunità  di essere corrotto. Sono passati più di trent’anni. La Democrazia cristiana non c’è più, il Partito comunista nemmeno. Ma la questione morale resta, anzi: si è metastatizzata nel settore privato.
Non si tratta più solo di politici che prendono soldi per finanziare illecitamente i propri partiti. Non ci si limita neanche a quanti favoriscono gli amici ricevendone in cambio vacanze, denaro, perfino case. Il cancro ha raggiunto ogni aspetto della società  civile. I banchieri sono accusati di prendere mazzette per concedere credito, perfino i calciatori sono accusati di percepire tangenti per perdere le partite.
Da tema solamente politico, la questione morale è diventata economica: la causa ultima del mancato sviluppo dell’ultimo decennio. Se le nostre imprese non crescono la ragione non è tanto il famigerato articolo 18, ma l’amoralità  economica diffusa nel nostro Paese. Non è solo la mia opinione: sono i dati a dirlo. Nei Paesi in cui c’è maggiore fiducia nell’onestà  dei propri concittadini le imprese sono più grandi.
Il motivo è che un proprietario delega i suoi poteri solo quando si fida del dipendente, perché più delega e più alto è il rischio che un dipendente ne approfitti, rubando o arricchendosi alle sue spalle.
L’impossibilità  di delegare dovuta alla mancanza di fiducia forza le imprese a rimanere piccole e familiari. Per questo non si espandono, per questo non vogliono cedere il controllo, che nel nostro Paese vale molto più che negli altri. Per questo il controllo è detenuto da famiglie attraverso complesse piramidi societarie.
Il problema delle imprese familiari non è tanto la presenza della famiglia nell’azionariato, ma il ruolo giocato dagli eredi ai vertici dell’impresa. Le imprese capitanate dal patriarca-fondatore valgono in media più di imprese simili senza alcuna presenza familiare.
Quando il bastone del comando passa a un erede, però, l’impresa familiare ne risente, e il suo valore di mercato scende in media del 10%.
In particolare, il valore di mercato di un’impresa familiare decade quando viene scelto come amministratore delegato un erede. Se invece il successore alla guida dell’azienda è selezionato all’esterno della famiglia, all’annuncio della nomina il valore dell’impresa sale del 2%.
La responsabilità  della cattiva performance degli eredi è soprattutto di quei rampolli che non hanno conseguito una laurea “decente”. Questo rinforza la tesi per cui il problema dell’impresa a gestione familiare sia il limitato patrimonio di talenti. Se non si ha la fortuna di avere un erede preparato e adatto al ruolo che gli viene affidato, l’azienda ne risente. Le imprese familiari guidate da un discendente del fondatore sono meno produttive e usano pratiche manageriali più inefficienti di quelle dirette da un manager esterno. Questo fenomeno è particolarmente pronunciato quando come discendente viene scelto il figlio primogenito, anteponendo dunque la regola dinastica alla scelta del migliore.
Ancora una volta, il problema non è la presenza della famiglia, ma il suo ruolo al vertice dell’impresa.
La diffusa mancanza di fiducia impedisce anche che si realizzino meccanismi di selezione meritocratica. Se temo che il dirigente sia infedele, scelgo il nipote, il parente, l’amico anche quando costoro sono meno competenti. Per questo la qualità  dei manager non è sempre delle migliori: nel Belpaese la fedeltà  vince sulla competenza.
In Italia manca una cultura del merito perché non c’è una cultura della legalità . Se io, politico (capo di partito o di governo), voglio ottenere dei benefici o dei favori che non mi competono, nomino non un candidato competente, ma uno a me fedele. Se io imprenditore voglio assicurarmi che le mie tangenti, le mie evasioni fiscali, i miei intrecci col potere politico non vengano rivelati, non scelgo il manager migliore, ma quello più fidato. E non c’è persona più fedele del buono a nulla, di chi non ha alternative. Se l’Italia non cresce, se è a rischio di default, è perché è stata fin qui governata dai peggiori. Non i mediocri: i peggiori. Il clientelismo politico e l’economia sommersa hanno trasformato il nostro Paese in una peggiocrazia.
È per questo che in Italia si trovano le migliori segretarie e i peggiori dirigenti. In un sistema che non premia il merito molte persone, soprattutto donne, che avrebbero tutte le capacità  di essere manager, sono confinate al ruolo di segretaria. Mentre i posti dirigenziali sono affidati a chi è ben introdotto, anche se spesso non è all’altezza del compito. Questo clientelismo è il motivo per cui il nostro Paese si trova in una profonda crisi. Nella competizione globale vince il migliore, non il compare, il raccomandato politico o il figlio di papà .
Perché in Italia non ci si può fidare? Perché un sondaggio tra i manager dei principali Paesi europei colloca i dirigenti italiani all’ultimo posto, tra quelli di cui ci si fida di meno?
Perché in Italia prevale la cultura della furbizia invece che quella dell’onestà ?
Non esiste fiducia senza cultura della legalità . E questa manca innanzitutto perché in Italia il delitto paga. Una cultura giuridica garantista, associata alla cronica lentezza dei tribunali, permette alla maggior parte dei criminali – o almeno quelli dai colletti bianchi – di farla franca. Con tre gradi di giudizio, ognuno dei quali dura da uno a tre anni, cui se ne sommano due di indagini preliminari, le condanne definitive in Italia non arrivano mai. Nel frattempo, se non è intervenuta la prescrizione è arrivata un’amnistia. E qualora entrambe falliscano, e il condannato non sia nel frattempo morto, esistono sempre gli arresti domiciliari per sopraggiunti limiti d’età  e la scarcerazione per buona condotta. I due ex governatori dell’Illinois (lo Stato in cui vivo) sono entrambi in galera, così come vi è stato Daniel Rostenkowski, il deputato che abusò per 30.000 dollari del privilegio postale di cui godeva. Vi ricordate forse di un qualsiasi politico italiano che sia finito nelle patrie galere per una condanna definitiva passata in giudicato? (…)
È possibile che la Nazione che si vanta di essere la patria del diritto sia diventata la tomba del rispetto della legge? Di certo i secoli di dominazioni e soprusi stranieri non hanno aiutato. Siamo il Paese dove i Pinocchi defraudati finiscono in prigione per aver denunciato la frode, mentre i Gatti e le Volpi godono, liberi, del frutto dei loro inganni.
© 2012 / Agenzia Santachiara
© 2012 RCS Libri S.p.A.

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