Così i guerriglieri siriani danno la caccia ai qaedisti

by Sergio Segio | 10 Settembre 2012 7:01

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BAB EL AWA (Siria) — Laici contro religiosi: è il conflitto maggiore che lacera la rivoluzione in Siria, anche se presentato in questo modo appare molto riduttivo. E ciò perché i laici raramente lo sono e i religiosi a loro volta risultano divisi in mille fazioni. L’ultimo episodio di una lunga storia ancora tutta da raccontare è avvenuto poco più di una settimana fa, quando un gruppo scelto della brigata partigiana Al Faruq ha assassinato Abu Mohammad Al Absi, leader trentenne di oltre 180 volontari stranieri di Al Qaeda, che da circa due mesi si erano acquartierati nella zona collinosa in territorio siriano presso la linea di confine con la Turchia di fronte alla città  di Antakia. Una vicenda di cui tutti parlano. Da allora i jihadisti sunniti stranieri si sono allontanati: molti si sono uniti alla guerriglia ad Aleppo, altri sarebbero scappati verso l’Iraq. Però una vicenda ancora confusa, che riassume in sé le forti tensioni cresciute tra brigate partigiane autoctone contrarie ad Al Qaeda e invece gruppi più fondamentalisti pronti a combattere al loro fianco.
A noi l’ha spiegata due giorni fa Taher Abu Ali, 33 anni, ex impiegato della compagnia elettrica statale nel villaggio di Sarmada, e da 14 mesi ufficiale della Al Faruq. Lo incontriamo mentre sta al comando di 200 uomini al vecchio terminale della dogana siriana posto a circa 6 chilometri dal passaggio di frontiera a Bab El Awa. La zona da inizio luglio è sotto controllo della rivoluzione per una profondità  di circa 40 chilometri. A metà  agosto le truppe corazzate di Bashar Assad hanno provato a riprenderla con l’appoggio dell’aviazione. Ma è stato un fallimento. I ribelli hanno distrutto una decina tra tank e mezzi blindati. Ora due carri armati catturati intatti sono nascosti sotto le pensiline del terminal pronti a fermare i contrattacchi lealisti.
«Sembra tutto tranquillo adesso. Ma solo 10 giorni fa non era così. Appena dietro quella collina sassosa erano accampati gli uomini di Al Qaeda. Quasi nessuno di loro parlava arabo. Penso fossero per lo più ceceni, afghani e pakistani. Proclamavano di voler fondare qui, in casa nostra, nelle terre liberate da noi, col nostro sangue, uno Stato Islamico Indipendente, lo chiamavano proprio così, dove dicevano avrebbero applicato integralmente la legge coranica contro gli sciiti. Non mi piacevano affatto. Io sono un musulmano credente, ma non concordo con gli eccessi, sunniti o sciiti che siano», racconta dunque indicando a poche decine di metri l’area dove stavano i qaedisti. Taher non nasconde il suo sollievo nello spiegare l’azione che ha messo fine alla presenza di Al Qaeda. «Al Absi era per loro ben più di un comandante. Parlava arabo, era originario di queste regioni. Siamo andati ad ucciderlo a casa sua, una decina di chilometri da qui, nel villaggio di Tall Qarameh. E per i volontari stranieri ai suoi ordini l’unica alternativa è stata unirsi a brigate più amichevoli che operano altrove».
A fianco delle sentinelle della Al Faruq, occupate per lo più a verificare che i camionisti di passaggio verso la Turchia non cerchino di contrabbandare il preziosissimo gasolio (in Siria costa la metà ), resta un piccolo drappello di giovani locali che prima fiancheggiavano i qaedisti. Hanno le barbe molto più lunghe dei combattenti regolari, al posto delle mimetiche verdi vestono in scuro, la testa fasciata con bandane nere decorate in bianco con i versi del Corano. Perduti i camerati arrivati dall’estero, sembrano ora propendere per i ben più moderati Fratelli Musulmani. Un movimento che trova le simpatie di tanti tra i circa 15.000 uomini inquadrati nella Al Faruq, da Homs, Idlib, Aleppo e sino al confine. E ciò nonostante la loro sia considerata una delle brigate «laiche», o comunque meno religiose (certo meno della potente brigata Al Tawheed posizionata ad Aleppo), tra le più importanti in tutto il Paese. «Gloria ad Allah e al suo Profeta Maometto», è scritto sul loro vessillo.
Il conflitto tra le tante anime della rivoluzione si ingigantisce tra i quadri politici dell’opposizione nella diaspora. Ad Antakia venerdì Fatin Ajjan, ex presentatrice della tv di Stato a Damasco e adesso attivista per gli aiuti ai civili vittime dei lealisti, non nascondeva il risentimento verso i gruppi legati ai Fratelli musulmani che a suo dire si sarebbero impadroniti di oltre 450 tonnellate di cibo e medicinali inviati per nave dai leader della rivoluzione libica. «Non hanno detto nulla a nessuno. E segretamente si sono presi tutto. Ma questi aiuti dovevano essere divisi in modo equo. È il loro modo per conquistare simpatie e potere tra i poveri siriani», sostiene Fatin.
Una parola di sostegno per i Fratelli musulmani, e persino Al Qaeda, arriva invece da un laico inveterato come Hamze Gadban. «Sono fanatici. Ma bravissimi combattenti pronti a morire. Non è un segreto che le brigate partigiane sono riuscite a tenere le posizioni ad Aleppo grazie anche al sacrificio dei combattenti stranieri che hanno l’esperienza dell’Afghanistan e dell’Iraq», dice lui che beve alcool a Ramadan ed è il volto più noto della televisione siriana pro rivoluzione Barada basata a Londra e il cui fratello Najib (professore universitario in Usa) è tra gli elementi più laici del Consiglio nazionale Siriano. Il timore però tra numerosi esponenti del massimo organo politico dell’opposizione è che l’insistenza sull’elemento sunnita, a scapito degli alauiti-sciiti pro Assad, da parte dei gruppi religiosi possa alla fine condurre alla divisione in due del Paese e alla fine della Siria.

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