Cosa c’entra l’Eni con gli aiuti?
Tre società sono note a tutti: Microsoft, Banca Intesa e soprattutto Eni. Di fronte alla recessione imperante, alla spending review e al già azzerato aiuto allo sviluppo italiano, per molti degli organizzatori il ragiunamento è scontato: i soldi non ci sono e va bene chiederli a chiunque, soprattutto a chi li ha. Per altro un tema centrale dell’agenda dei lavori è proprio lo sdoganamento definitivo del settore privato come principale motore dello sviluppo, al punto che si considerano nuove modalità non solo per far finanziare al privato progetti di sviluppo, ma addirittura per concedergli prestiti pubblici agevolati per la loro attuazione, così come si fa con i paesi più impoveriti. E’ notevole che il cane a sei zampe campeggi sull’iniziativa più importante da anni per discutere di solidarietà internazionale, ed è anomalo il silenzio in proposito del mondo tradizionale della cooperazione e delle Ong, assetato di risorse.
Per chi vive nel Delta del Niger, così come in tanti altri luoghi del pianeta devastati a livello ambientale e sociale dallo sfruttamento del petrolio da parte delle multinazionali, i nomi Eni e Agip non sono sinonimo di aiuto, sviluppo o cooperazione, come dimostrato anche dalla campagna in corso di Amnesty International rivolta proprio a Eni. La scelta dell’Eni come sponsor rischia di togliere ogni credibilità al già discutibile esercizio del Forum, interamente mirato a consacrare la privatizzazione della cooperazione.
Qualcuno dirà che non ci si poteva aspettare altro dal «governo delle banche». Ma la questione è più profonda. A chi obietterà che questa critica al privato come attore di sviluppo sa di «vecchia ideologia» non al passo con i tempi della globalizzazione finanziarizzata, e magari che la stessa Eni è certificata dal Dow Jones Sustainability Index e da altre agenzie di rating come azienda virtuosa e sostenibile, bisognerà ribattere con una domanda. Non è invece più ideologico e dogmatico ritenere che la «fabbrica dello sviluppo e degli aiuti» – che ha palesemente fallito negli ultimi decenni nel combattere la povertà nel mondo – debba andare avanti a ogni costo, al punto da metterla nelle mani del privato, se non addirittura dei mercati finanziari?
Inoltre, è davvero solo una questione di soldi che non ci sono, quando la crisi sistemica che viviamo è proprio dovuta ai troppi capitali «assetati» di profitti sempre più grandi che volteggiano sul 99% della popolazione del pianeta? La stessa Eni opera sistematicamente, come quasi tutte le multinazionali, con società che hanno sede in paesi considerati paradisi fiscali, presumibilmente -e legalmente, si dirà – per ridurre le tasse da pagare; vi sono diversi casi in cui la società è stata coinvolta in scandali di corruzione e proprio in Nigeria è stata condannata al riguardo per il progetto di Bonny Island.
Insomma, le risorse per i poveri ci sano, ma vanno mobilitate localmente e poi internazionalmente, ponendo vincoli alla follia dei mercati globali. Soprattutto ci pare necessario che siano i poveri a decidere che tipo di sviluppo vogliono, e come finanziarlo.
Analogamente alla privatizzazione della cooperazione, in modo dogmatico, le conseguenze negative su popolazione e ambiente associate alle operazioni delle multinazionali del petrolio sono considerate ineluttabili, un «danno collaterale» dello sviluppo sanabile magari con più aiuti. Ma la realtà sul campo è sconcertante. L’Alta corte federale di Benin City in Nigeria dal 2005 considera la pratica del gas flaring (bruciare i gas associati al petrolio) non solo illegale, ma anche una violazione del diritto alla vita sancito nella Costituzione del paese. Eppure, a tutt’oggi il fenomeno continua, come documentato da missioni indipendenti della società civile (vedi Oil for Nothing). I danni gravissimi all’ambiente e alla salute di chi vive nel Delta del Niger continuano. I nuovi piani di sfruttamento del gas su larga scala aggraveranno i problemi nella regione.
L’Eni non è una società qualunque: il 30% della proprietà è in mani pubbliche, e per questo ogni anno consegna un lauto dividendo al ministero dell’economia. Forse a breve dovremmo conteggiare la partecipazione statale nell’Eni come aiuto allo sviluppo? Se il ministro Riccardi volesse promuovere davvero un’azione di sviluppo a costo zero per i contribuenti italiani, e senza passerelle inutili, potrebbe indurre la società che controlla come principale azionista di minoranza a prestare più attenzione agli impatti sociali e ambientali dei propri progetti. I poveri apprezzerebbero un’azione di verità e giustizia da chi dice credere in quei principi. Anche la società civile potrebbe fare azioni di sviluppo a costo zero, aprendo una seria battaglia globale per rendere illegali le pratiche di elusione fiscale delle multinazionali.
Queste sono solo alcune delle ragioni per non esserci al party dello sviluppo di Milano
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