Convention, Clinton benedice Obama Romney all’attacco su Gerusalemme

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CHARLOTTE – «Stiamo meglio di quattro anni fa?» Su questa domanda Mitt Romney imposta la sua offensiva al bilancio economico e sociale di Barack Obama, mentre il debito pubblico americano supera la soglia storica di 16 mila miliardi. Ora si aggiunge improvvisamente un altro fronte di attacco in politica estera. La destra si accorge che nella piattaforma elettorale democratica a Charlotte per la prima volta non si dichiara che Gerusalemme è la capitale d’Israele. «E’ vergognoso – dichiara il candidato repubblicano – Obama continua ad allontanarci dal nostro alleato, io da presidente ricostruirò questa relazione e sosterrò Israele». Il calcolo di Romney è tentare di influenzare il voto della comunità  ebraica americana, che può essere decisiva in uno Stato in bilico come la Florida.
Un aiuto prezioso a Obama gli giunge stasera dal suo predecessore, ispiratore, amico-nemico, protettore-rivale di sempre: Bill Clinton. Mai prima d’ora un ex presidente si era visto assegnare un ruolo così importante a una convention: lanciare la ri-candidatura del presidente in carica. Il gesto suggella i destini di due leader caratterialmente agli antipodi. «La materia e l’anti-materia, il fuoco e il ghiaccio, l’estroverso e l’introverso» li definisce il biografo di Obama David Maraniss, ricordando che Clinton per il suo carattere caloroso si conquistò l’appellativo del “primo presidente nero” nel 1992. Due formidabili icone che separano 15 anni di età , ai due estremi demografici della generazione dei baby boomer. Stasera i loro destini s’incrociano un’altra volta, e la posta in gioco è altissima.
Obama risponde a modo suo a quella domanda essenziale per gli elettori indecisi: “Are We Better Off?”. Stiamo meglio dopo questa presidenza? «Mi darei “incompleto” come voto», dice Obama. «Siamo tuttora in mezzo alla crisi – aggiunge – la più grave da molte generazioni. Nel disastro finanziario perdemmo 9 milioni di posti di lavoro. Da allora ne abbiamo recuperati 4,5 milioni. Ma abbiamo salvato l’industria dell’auto, abbiamo garantito ai giovani un accesso meno costoso all’università , abbiamo investito nell’energia pulita, nella ricerca, sono premesse di una crescita durevole».
Per dargli credibilità , chi meglio di Clinton? Bill è prezioso non solo per la sua popolarità , in particolare qui al Sud, ma per un bagaglio molto più importante che consegna a Obama. La sua credibilità  si fonda su una memoria storica: l’ultima Età  dell’Oro che gli americani adulti ricordano. Clinton fu presidente in otto anni di fantastica crescita: 20 milioni di posti di lavoro al termine di un boom culminato con la New Economy, la prima rivoluzione digitale. Portò il bilancio federale in attivo. Dimostrò che l’economia riparte aumentando le tasse sui ricchi. Insieme alla simpatìa, alla maestrìa nella comunicazione, Clinton ha il carisma dell’unico democratico ad aver vinto due mandati popolari dopo Franklin Roosevelt.
Clinton suonerà  più credibile di chiunque altro stasera, quando dal palco della Time Warner Arena griderà  al popolo democratico e a tutta l’America: «Romney vuole fare quello che la destra ha già  fatto a questo paese, aggiungendo gli steroidi. Porterebbe agli stessi risultati che conosciamo, e all’ennesima potenza». Clinton ricorderà  che nel 1996 era lui a sembrare finito, esautorato da una destra maggioritaria al Congresso: gli elettori ebbero ragione a ridargli fiducia, e il suo secondo mandato fu il più brillante per l’economia.
Il valore delle parole di Clinton giustifica che Obama gli abbia perdonato ogni sgarbo, compreso l’insulto razzista di quattro anni fa che oggi riaffiora sui tabloid di Rupert Murdoch e nel magazine liberal The New Yorker. Durante la lotta per la nomination del 2008, nel vano tentativo di convincere Ted Kennedy a sostenere Hillary, il marito disse a Ted: «Uno come Obama, un tempo ci avrebbe portato le valigie». Acqua passata, un pegno della riconciliazione è stata proprio Hillary. Lei si è prestata con lealtà  a fare il segretario di Stato, lo ha fatto benissimo. Ora lascerà  l’incarico e avrà  quattro anni a disposizione, più che mai favorita per la candidatura democratica del 2016, sia che Obama vinca il 6 novembre sia che venga sconfitto. Per Bill sarà  il coronamento di un sogno.
Obama paga un altro prezzo per il robusto sostegno che riceverà  stasera. Clinton è anche un simbolo negativo: il più centrista dei presidenti democratici, l’uomo di mille compromessi, trovò un accordo con la destra su forti tagli al Welfare, spianò la strada alla deregulation finanziaria, mise al Tesoro il banchiere di Goldman Sachs Robert Rubin. E Clinton non è affatto un “pentito della Terza Via”. Anzi, poche settimane fa ha preso le distanze dagli attacchi sulla carriera di Romney nella società  di private equity Bain Capital. Il vecchio manovratore democratico cerca di tenersi buoni tutti: la middle class e i finanziatori di Wall Street.
Ci provò anche Obama, il primo biennio della sua presidenza fu segnato dalla ricerca di intese bipartisan, sistematicamente sabotate da una destra sempre più radicale. Anche se vince il 6 novembre, Obama con ogni probabilità  avrà  “contro” almeno uno dei due rami del Congresso. Per governare nei quattro anni successivi, dovrà  studiarsi comunque i benefici e i costi di un patto faustiano come quello di Bill.


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