Come uscire dal caos
Ecco un nuovo tavolo. Speriamo abbia più fortuna dei precedenti. Il tema è la produttività , presupposto per una crescita prolungata nel tempo.
Aumentare la produttività significa innanzitutto migliorare la distribuzione del lavoro fra imprese. L’esperienza internazionale ci dice che più del 50 per cento degli incrementi di produttività deriva da spostamenti di risorse dai comparti stagnanti a quelli che hanno prospettive di crescita. Possiamo favorire questo processo riducendo la spesa pubblica. Oggi due settori stagnanti – agricoltura e trasporti – ricevono tre quarti dei contributi alla produzione erogati dalle amministrazioni pubbliche in Italia, secondo i dati dell’Istat. I settori che esportano, a partire dal comparto manifatturiero, quelli che possono maggiormente beneficiare della crescita in altre parti del mondo, raccolgono poco più del 5 per cento di questa torta. I servizi sanitari, quelli alle imprese e i servizi alla persona, dove è possibile in prospettiva creare più posti di lavoro nel prossimo decennio, ne assorbono meno dell’1 per cento.
Il resto dei guadagni di produttività lo si ottiene migliorando l’utilizzo del lavoro in ciascuna azienda. Il sindacato chiede di ampliare gli incentivi fiscali alla cosiddetta contrattazione di secondo livello, la detassazione dei premi di produttività . Giusto potenziare la contrattazione azienda per azienda. Serve a incentivare i miglioramenti di efficienza, molto di più di misure imposte dall’alto. Ma siamo sicuri che gli incentivi fiscali alla contrattazione di secondo livello servano davvero? Da quando sono stati introdotti, la quota di imprese industriali in cui si svolge la contrattazione aziendale è solo diminuita, passando da un terzo a un quinto del totale secondo i dati di Confindustria. Certo, siamo in una situazione di crisi, ma è proprio in queste situazioni che la contrattazione decentrata serve. Tutti parlano del “modello tedesco”: in Germania è stata proprio la contrattazione azienda per azienda, che ha negoziato riduzioni salariali per salvare l’occupazione, ad evitare di distruggere posti di lavoro nel mezzo della Grande Recessione, quando la disoccupazione è addirittura diminuita. Legittimo chiedersi: la detassazione dei premi di produttività serve a decentrare la contrattazione o a premiare le imprese in cui il sindacato è più forte e riesce comunque a imporre al datore di lavoro un contratto di secondo livello? In ogni caso, per incentivare la contrattazione aziendale non c’è bisogno di aiuti fiscali, di attingere a risorse pubbliche. Basta recepire l’intesa del settembre 2011, varare una legge delle rappresentanze sindacali e introdurre anche nel nostro ordinamento un salario minimo orario.
Azzerando la detassazione dei premi di produttività si libererebbe sulla carta un miliardo, in realtà di più dato che il costo è sistematicamente in eccesso a quanto preventivato. Un altro miliardo e mezzo verrebbe dagli incentivi fiscali al contratto di apprendistato che sembra non averne minimamente beneficiato: la loro quota sulle assunzioni è in costante calo. Azzerando i trasferimenti alle imprese individuati come distorsivi dal cosiddetto rapporto Giavazzi (vedi www.lavoce.info), si potrebbero reperire altri 10 miliardi. Questi risparmi darebbero la possibilità di ridurre il cuneo fiscale di quasi 6 punti. Se poi si lasciasse aumentare l’Iva a luglio 2013, destinando i risparmi della spending review ad abbattere la pressione fiscale sul lavoro, la riduzione del cuneo fiscale potrebbe arrivare quasi a 10 punti. Non poco. Certamente non passerebbe inosservata come tanti micro-tagli delle imposte varati in questi anni. Sarebbe come andare in Canada, vorrebbe dire scendere al di sotto di Germania e Spagna nel livello del prelievo sul lavoro. E faremmo una mini-svalutazione fiscale, proprio quello che serve a migliorare i nostri conti con l’estero.
Se non si ha questa forza o questo coraggio, si possono comunque fare sgravi più limitati, ma orizzontali. Ad esempio si possono concentrare gli sgravi sui salari più bassi, riducendo al contempo, gradualmente, le detrazioni per coniugi a carico, una misura che rilancerebbe l’occupazione femminile e, a regime, sarebbe a costo zero per le casse dello Stato.
Sostiene Angeletti che la trattativa si apre nei tempi supplementari. In realtà l’arbitro ha già mandato le squadre negli spogliatoi e stiamo preparando la prossima stagione: le misure che servono davvero per far crescere la produttività non avranno comunque effetti prima delle elezioni. È proprio a questo che servono i governi tecnici: non devono sacrificare il necessario sull’altare del voto imminente. L’unica politica industriale degna di questo nome è quella che sa immaginare quale sarà la geografia del lavoro fra 10, meglio 20 anni. Chi da noi invoca la politica industriale purtroppo chiede tutti i giorni esattamente il contrario, magari in nome della lungimiranza. Pensiamo ai casi dell’Ilva e del Sulcis assurti agli onori della cronaca nelle ultime settimane. È lungimirante chi ha sussidiato per 50 anni le miniere del Sulcis sapendo che il carbone ivi prodotto aveva troppo zolfo per essere conveniente e avendo capito 30 anni fa che anche il progetto di gassificazione non era bancabile? È lungimirante chi oggi propone un progetto che costa mezzo milione di euro all’anno per ogni posto di lavoro salvato? È lungimirante chi da 20 anni sa che l’impianto Ilva di Taranto provoca un aumento della mortalità per malattia, inquinamento e danni alla salute umana, ma ha tenuto tutto congelato anziché imporre all’azienda graduali operazioni di riconversione e bonifica degli impianti? Se si fosse agito per tempo, oggi non avremmo un dilemma in un caso (tutelare il lavoro o la salute?) e non avremmo speso un miliardo di una delle Regioni più povere d’Italia per poi doverci oggi trovare a gestire scelte difficili nel mercato del lavoro più depresso d’Italia, nel mezzo della peggiore recessione del Dopoguerra.
Il clima purtroppo non è quello giusto. Tutti, ministri e parti sociali, vogliono spendere, nessuno vuole risparmiare. Si allontana così la possibilità di tagliare davvero le tasse sul lavoro. E i ministri che siederanno al tavolo, quando rinunciano ai voli pindarici, propongono micro-interventi, discrezionali, destinati ad allungare ulteriormente l’elenco delle improbabili agevolazioni alle imprese accumulatesi da un governo all’altro. Domenica ho letto di una detassazione delle “imprese dialoganti” e mi sono chiesto se si intendevano detassare i call center o si volesse piuttosto trasformare ciò che è distorsivo in discorsivo. Se non si hanno le idee chiare, meglio lasciar perdere i tavoli. Rischiano di diventare delle zattere su cui è facile naufragare. Come nel confronto sulla riforma del lavoro, la concertazione diventa un pianoforte che lentamente, inesorabilmente, si inabissa, l’ultima scena di un bel film.
Related Articles
Il diritto alla bancarotta come contropotere finanziario
LA ROTTA D’EUROPA
Solo il diritto all’insolvenza degli stati potrebbe smontare il potere finanziario. L’Euopa potrebbe cambiare le regole e unire le sue politiche fiscali. Una finanza mondiale grande otto volte l’economia reale non è sopportabile e la politica monetaria aiuta la speculazione
Marcegaglia insiste: cambiare l’articolo 18
Nessuna piattaforma comune tra Confindustria e sindacati alla vigilia della riunione di oggi con il governo sulla riforma del lavoro
Il rovesciamento della realtà
STAVOLTA non si tratta di uno dei tanti balletti di cifre sui conti pubblici cui gli italiani hanno fatto ormai il callo da molti anni. Al centro del problema ci sono quasi 400mila cittadini che si trovano a non avere più un lavoro e a non ricevere il relativo salario, ma senza aver ancora maturato il diritto alla pensione. Siamo di fronte a un dramma sociale di enormi proporzioni.