CINECITTà€ 90 giorni di lotta, nessun risultato
Accatastate dentro una carriola, porteranno al presidente della repubblica migliaia e migliaia di firme che chiedono di salvare quel che resta dell’impianto manifatturiero più importante dell’industria cinematografica italiana, gli studi di Cinecittà . Riuscirà la più alta carica dello stato a fermare, o quanto meno a sospendere, la triste prospettiva di smantellamento di una delle principali glorie materiali e immateriali dell’Italia contemporanea? E soprattutto, riuscirà quest’iniziativa laddove molte altre sono risultate vane? È da novanta giorni che gli scenografi, i tecnici, le sarte, gli impiegati, i falegnami, le truccatrici, gli addetti alla produzione, ecc. presidiano una delle ali degli stabilimenti, tra striscioni e bandiere, giorno e notte, nel caldo e nel freddo, nelle tende e sui tetti. E le loro ragioni sono ancora lì, inascoltate e disattese. Nonostante il sostegno ufficiale dei sindacati (non tutti), con tanto di manifestazioni e assemblee con i segretari nazionali. Nonostante la solidarietà raccolta nel mondo del cinema e della cultura, gli articoli sui più prestigiosi giornali italiani ed esteri, oltre a un’impressionante mole di pronunciamenti politici spesso unanimi a tutti i livelli istituzionali, dal Municipio territoriale al Comune, alla Regione, al parlamento, al governo.
Il presidente Napolitano, al di là di come lo si giudichi nei suoi orientamenti politici, sembra essere diventata l’unica (e ultima) sponda a cui far approdare quella domanda politica che la politica stessa non è più in grado né di ricevere né di interpretare. Il caso Cinecittà è esemplare. Tutti gli interlocutori istituzionali si dichiarano disponibili a discutere e ragionare sul futuro di quel sito, ma nessuno ha la forza (la voglia) di farlo davvero, di aprire un confronto tra le parti e cercare una soluzione condivisa. Una dimostrazione di imbarazzante debolezza o un’inconcludenza più o meno voluta che nei fatti diventa una vera e propria omissione? Già , perché mentre ci si fanno queste desolanti domande, intanto la direzione aziendale continua per la sua strada e in questi giorni ha cominciato a realizzare quanto annunciato: disarticolare il ciclo produttivo, affittando e/o vendendo i vari segmenti produttivi, con annessi i dipendenti, che in caso non accettino vengono direttamente accompagnati alla porta. E tutto ciò in attesa che si cominci a densificare l’area degli stabilimenti con interventi edilizi di dubbia (se non impropria) funzione.
Il piano aziendale insomma procede, malgrado il generalizzato dissenso. Succede un po’ come alla Fiat, dove l’impresa fa e disfa come ritiene, incontrando solo flebili osservazioni, sommessi colpi di tosse e qualche sopracciglio inarcato; peraltro, la stessa reazione riscontrata al ministero dei beni culturali in occasione dell’incontro con i lavoratori del cinema. Insomma, Luigi Abete come Sergio Marchionne. Cinecittà non sarà la Fiat, almeno non nei suoi aspetti strutturali e occupazionali, ma certo non è per nulla trascurabile la sua rilevanza storica, il valore sociale di aggregato di maestria e intelligenza, l’impatto sull’immaginario, la suggestione culturale che trasmette direttamente all’intero mondo. Diciamocela schietta, in questo paese i padroni fanno quel che vogliono e nessuno è in grado di contrastarli. A Cinecittà , alla Fiat, all’Alcoa e nelle migliaia di luoghi di lavoro che di questi tempi soffrono le ricadute della crisi. Non c’è più mediazione politica, non c’è più corpo intermedio istituzionale; e lo stesso sindacato, indebolito dalla precarietà della contingenza economica, ma anche dalle manchevolezze politiche, rischia costantemente di oscillare tra l’isolamento e la subalternità . Siamo al corpo-a-corpo tra impresa e lavoro. Dove tuttavia la lotta diventa impari, grazie a una legislazione compiacente verso il padronato, grazie alle complicità di un governo che straparla di ripresa economica ma produce miseria e disoccupazione.
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